Numeri contro la Festa della Donna

Dati sull'occupazione femminile, sulla natalità in Italia e sull'autonomia economica non fanno venir voglia di festeggiare. Ma quali segnali incoraggianti sono da considerare perché l'8marzo possa considerarsi davvero occasione di Festa?

Dati contro la festa della Donna

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I dati non sono celebrativi. Ed è per questo che può fare molto la differenza scegliere se parlare dell’8 marzo riferendosi alla Festa della donna oppure alla Giornata internazionale della donna. All’istante l’attenzione si concentra su un immaginario o un altro relativamente a una data scelta per celebrare conquiste e successi in ambito sociale, professionale, culturale e politico del genere femminile in un contesto di svantaggio storico e discriminazione mai del tutto superati (e a essere onesti, in uno scenario di forte crisi anche di risultati e approdi che ritenevamo consolidati).

 

Non che vi siano errori nell’esaltare una ricorrenza, tutt’altro (e soprattutto nell’ultimo anno di feste ne abbiamo tutti bisogno). Ma quale occasione ci stiamo negando permettendo ai numeri di restare soltanto numeri e non sproni, innesti ad aumentare quelle conquiste di cui sì, allora, sarà la volta buona che potremo farne occasione di festa? Nel biennio 2019-2020 il terreno perso sul campo delle pari opportunità lascia poco spazio all’ottimismo e allora è il caso di guardarli in faccia e ascoltarli, proprio l’8 marzo, questi numeri. 

 

Occupazione femminile, dati in calo nel 2020

Il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” dell’Istat presentato a gennaio 2021 alla Camera dei Deputati contiene elementi salienti per comprendere perché parlare proprio di resilienza e ripresa. E non è tutto a partire dall’emergenza Covid19.

 

“Nell’area euro – si legge nel documento - le misure di contenimento adottate negli ultimi mesi dell’anno hanno danneggiato soprattutto il settore dei servizi. La pandemia sembra aver acuito i divari preesistenti nel mercato del lavoro. Nel terzo trimestre 2020, il calo occupazionale tendenziale tra le donne – pari a -3,5% contro il -2% degli uomini – diventa ancora più marcato se si tratta di donne al di sotto dei 35 anni di età, che hanno visto diminuire il numero di occupate dell’8,9% (contro il -3,9% degli uomini), o residenti nel Mezzogiorno, tra le quali il calo è stato pari al 3,7%, con una variazione più che doppia di quella registrata per gli uomini (- 1,3%)”.

 

Come sappiamo, esiste tutta una Questione meridionale femminile che non fa bene all’8 marzo. “Tra le donne giovani residenti nel Mezzogiorno – è descritto nel Piano - il numero di occupate diminuisce del 10,3%; ancora una volta la variazione è circa doppia rispetto a quella maschile (-5,5%)”. 

Alle donne che il lavoro ce l'hanno, invece occorrerrebbe andare a chiedere come e quanto viene pagato scoprendo che un altro divario inchioda le donne lavoratrici in Italia, il gender pay gap.  

 

Più diplomate e laureate, le donne italiane

Le donne non trovano lavoro non perché non hanno studiato, ma per l’esatto contrario, probabilmente. In un quadro generale in cui i titoli di studio della popolazione italiana sono inferiori alla media UE, è ancora il dato femminile a sostenere la tenuta:

 

“Nel nostro Paese – dati Istat - nel 2019 le donne con almeno il diploma sono quasi i due terzi del totale (il 64,5%), quota di circa 5 punti percentuali superiore a quella degli uomini (il 59,8%); una differenza che nella media Ue è di appena un punto percentuale. Le donne laureate sono il 22,4% contro il 16,8% degli uomini; vantaggio femminile ancora una volta più marcato rispetto alla media Ue.  Tale risultato deriva anche da una crescita dei livelli di istruzione femminili più veloce rispetto a quella dei maschi: in cinque anni la quota di donne almeno diplomate e di quelle laureate è aumentata, in entrambi i casi, di 3,5 punti (+2,2 punti e +1,9 punti i rispettivi incrementi tra gli uomini)”. 

 

Bilancio demografico 2020, sempre meno nuovi nati e pochi nidi

Non è una questione soltanto femminile, ovviamente, se in Italia facciamo meno figli. Ma a supporto di una argomentazione che superi la volontà dei childfree, sono ancora i dati dell’Istituto di statistica italiano a parlarci: 

 

“In Italia siamo al limite inferiore dei 400 mila nati, una soglia mai raggiunta negli oltre 150 anni di Unità Nazionale… Degli effetti del rinvio dei concepimenti, valutabili finora sui nati di dicembre (e in parte di novembre) 2020 ma verosimilmente destinati a protrarsi nel corso del 2021 (almeno nei primi mesi), si forma la piena convinzione che, a meno di inaspettati e improbabili fattori a supporto della fecondità, difficilmente ci si potrà sollevare in tempi brevi dalla soglia dei 400 mila nati toccata nel 2020. In realtà, il timore è che il confine possa ancor più discostarsi, sempre al ribasso, nel bilancio finale del 2021”.

 

Meno donne che raggiungono l’autonomia economica sono meno donne che potranno scegliere in piena libertà della loro vita, va da sé. E ammesso che questi bimbi arrivino, nel 2021, dove li lasciamo? I servizi alla prima infanzia sono determinanti per consentire quella “annosa” questione della
conciliazione famiglia-lavoro che nel nostro Paese è davvero e purtroppo un tema tutto rosa.

 

Gli asili nido hanno visto una forte crisi nella Fase 1 della pandemia in quanto le rate non pagate dalle famiglie per via della chiusura di tutti i servizi educativi ha messo in ginocchio il comparto privato e convenzionato. 

 

Non confondiamoci però, i posti negli asili nidi erano pochi già prima di marzo 2020: “Il dato più importante riguarda la disponibilità dei posti rispetto al totale dei bambini sotto i tre anni: in Italia è al 25,5%, in leggera crescita rispetto al 24,7% dell’anno educativo 2017/2018. Significa che negli asili nido italiani ci sono 25,5 posti ogni 100 bambini sotto i tre anni”. In pratica, solo un bebè su 4 può sperare fare questa importante esperienza formativa. Nel 2021 questa percentuale è da rivedere al ribasso. 

 

Le mimose e la forza delle donne

Si potrà obiettare che la scelta dei dati determini lo scenario che si voglia rappresentare e che quindi i numeri siano interpretabili in quanto selezionati a un preciso scopo. Può darsi. Allora diamo spazio ai numeri forti. Donne a capo di un’azienda ne abbiamo? Sì. 

 

L'International Business Report (Ibr) - Women in business 2020 di Grant Thornton International (Fonte Valore D) registra che le posizioni di CEO donne in Italia corrispondono al 23% e, più ad ampio raggio, la leadership femminile nel nostro Paese riguarda il 28% delle realtà imprenditoriali, con un aumento del 4% rispetto al 2019.

 

Anche Unioncamere registra che “A fine 2019 sono oltre 38mila in più le imprese femminili iscritte al Registro delle Camere di commercio rispetto al 2014. Con questo aumento costante, le imprese femminili sono arrivate a 1 milione e 340mila rappresentando il 22% del totale delle imprese”.

 

Non possiamo chiamarla parità, potremo convenire tutti. Ma c’è, tutto sommato, qualcosa da festeggiare. Andrà benissimo la più classica mimosa, pianta spontanea dal profumo intenso e raggiante, resistente e in grado di fiorire anche nei terreni più difficili. Proprio come ciascuna donna voi conosciate.