Non è un Paese per donne: Italia patria del gender pay gap

Sottopagate, costrette a ridurre il lavoro per la cura dei figli, poco inclini a candidarsi per professioni scientifiche e tecnologiche, raramente promosse ai vertici. Sarebbe di quasi 3.000 euro lordi annui il differenziale tra le buste paga di uomini e donne e sul gender pay gap l’Italia è ai primi posti.

Non è un Paese per donne: Italia patria del gender pay gap

Si traduce In Italiano come “differenziale salariale di genere”, il gender pay gap è il divario statisticamente riscontrato tra i salari di uomini e donne in tutti i paesi industrializzati, compresa l’Italia.

Secondo il Gender Gap Report dell'Osservatorio JobPricing, se si confrontano i salari annui di uomini e donne, la differenza salariale fra i due sessi sfiorerebbe i 3000 euro annui per i lavoratori dipendenti.

Come se le donne, a confronto dei loro colleghi maschi, lavorassero due mesi all’anno senza essere pagate. Scenario che si farebbe ancora più critico per i liberi professionisti. Dati, questi, piuttosto allarmanti in tutti i Paesi al mondo compresa l’Italia.

 

Il gender pay gap in Italia

L’Italia sembra essere uno dei Paesi con gender pay gap più elevato e lo si vede se non ci si ferma ai dati parziali ma si va a esaminare il dato complessivo e come esso varia col progredire dell’età e della carriera lavorativa.

A una prima analisi piuttosto grossolana sembrava infatti che il nostro Paese vantasse un differenziale salariale di genere piuttosto basso: niente di più falso. Se è effettivamente vero che la fascia giovanile 18-29 anni vanta una differenza di salario minima fra ragazzi e ragazze, il dato cresce esponenzialmente andando avanti nel tempo.

Col progredire dell’età e della vita lavorativa, infatti, il gender pay gap in Italia secondo l’Istat passerebbe dal 6,4 al 16,2 % se si prende in considerazione la fascia di età tra i 30 e i 39 anni. Ma perché le donne guadagnano meno degli uomini?

 

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Gender pay gap: più di una palese ingiustizia

Il gender pay gap è un dato che genericamente indica la differenza di retribuzione oraria fra uomini e donne. Con questo dato, dunque, non si identificano solo i casi in cui, a parità di mansione e di ore di lavoro, si configuri una differente retribuzione a causa del genere.

Casi di questo tipo, di esplicita ingiustizia, esistono (anche nel dorato mondo di Hollywood) ma non rappresentano l’unica risposta al differenziale salariale nei due sessi.

Il gender pay gap è un dato più complesso e indica la differenza di reddito medio fra uomini e donne. Questa diversa retribuzione si accompagna ad un diverso trattamento ma anche ad una diversa partecipazione, sia qualitativa che quantitativa, delle donne al mondo del lavoro.

 

Gender pay gap in Italia: differenze quantitative e qualitative

Una prima differenza è quantitativa: sebbene le donne, al netto, lavorino un numero di ore giornaliere mediamente superiore a quello degli uomini, le ore impiegate nel mercato retributivo del mondo del lavoro sono inferiori.

Più spesso dei loro colleghi uomini, infatti, hanno un orario di lavoro part-time, in più della metà dei casi non per scelta, ma per necessità di conciliare il lavoro con la cura della casa e dei figli.

Una seconda differenza è qualitativa: esistono ancora concezioni piuttosto stereotipali femminili che vedono le donne maggiormente “adatte” per lavori sociali, assistenziali o di insegnamento riservando agli uomini carriere nel mondo delle scienze o dell’elettronica.

E spesso, sebbene non sempre, esistono significative differenze reddituali fra le due categorie professionali per i diversi gradi di specializzazione richiesti, le prospettive di avanzamento di carriera e di successo e le possibilità occupazionali.

Le donne tenderebbero ancora a scegliere il primo tipo di professioni risultando ancora poco rappresentate nelle seconde.

Ma c’è di più: anche nei settori tradizionalmente a prevalenza femminile, come l’insegnamento, la presenza di donne decresce proporzionalmente dalle scuole materne alle università dove ricercatori, professori ordinari e rettori sono nella stragrande maggioranza dei casi uomini.

Comprese le discipline in cui le donne rappresentano la maggioranza delle laureate e ottengono voti migliori. È il cosiddetto fenomeno del “soffitto di cristallo” che alimenta la nostra cultura ancora fortemente, ma implicitamente, misogena: sebbene le donne abbiano sulla carta pari opportunità, di fatto non hanno uguali probabilità di avere accesso a posizioni di potere o apicali nel mondo del lavoro. I loro curricula sono ancora valutati in maniera pregiudiziale.

 

Gender pay gap in Italia: pregiudizi inconsapevoli?

La direttiva europea sulla non financial disclosure recentemente entrata in vigore anche in Italia imporrebbe alle imprese di resocontare i dati relativi alla diversità di personale.

La norma in sé ha forse una marcia in più rispetto a quelle che più tradizionalmente impongono dall’alto di assicurare una certa “quota rosa” di lavoratrici.

Si richiede infatti alle aziende di effettuare una rilevazione delle differenze relative alla composizione del proprio personale. In questo modo è possibile ottenere una “fotografia” dell’esistente che spesso sfugge a lavoratori e manager proprio perché nessuno probabilmente ha apertamente intenzione di discriminare.

La discriminazione di genere, anche in Italia, avviene a livello implicito, inconsapevole, involontario. Più che una norma impositiva – lo si è visto nei paesi scandinavi: se le norme non si accompagnano ad un cambiamento culturale possono avere effetti paradossi – servono metodi per portare alla luce del sole tale fenomeno, per promuovere più consapevolezza, in entrambi i sessi, di quanto spesso ancora le proprie azioni siano guidate da pregiudizi e stereotipi piuttosto che dai valori cui si vorrebbe scegliere di aderire.

 

Gender pay gap in Italia: non è un paese per genitori?

Un’ultima notazione è quella relativa alla maternità che rappresenterebbe ancora uno dei maggiori ostacoli all’annullamento del gender pay gap, specie in Italia dove poche sono le tutele in tal senso.

D’altra parte nei modernissimi Paesi scandinavi, che consentono ai padri di usufruire del permesso parentale al pari delle loro compagne, la norma non ha sempre prodotto gli effetti sperati andandosi a scontrare con un clima culturale ancora piuttosto arretrato.

Il risultato? In alcune realtà gli uomini sono restii a usufruire del congedo parentale perché temono di essere considerati in qualche modo “meno maschi”! Le leggi calate dall’alto non bastano da sole a modificare un fenomeno se non sono accompagnate a cambiamenti culturali.

E un grosso cambiamento culturale dovrebbe essere fatto non solo in merito alla parità di genere, ma anche rispetto alla maternità. La maternità, i figli, la genitorialità in generale sono fattori di forte discriminazione nel mondo sciale e lavorativo di oggi: lo vediamo per le donne, ma sarebbe probabilmente la stessa cosa che fossero i neo-papà ad assentarsi dal lavoro.

Quello dedicato ai figli sembrerebbe sempre più spesso considerato un “tempo improduttivo” perché allontana il genitore dal mercato, dal mondo in cui “il tempo è denaro”.

Da quando abbiamo iniziato a considerare il mettere al mondo delle nuove vite una “perdita di bilancio”? Da quando l’umanità ha iniziato a percepire la riproduzione della sua stessa specie una complicazione, un ingombro o un fattore di stress?

Sono domande queste che ci riguardano tutti, a tutti i livelli del mondo lavorativo e sociale, dal macro al micro, sia uomini che donne (che siano etero o omosessuali), sia persone con figli che persone che non intendono avere figli.

Ci riguarda in quanto esseri umani perché è il nostro futuro:

"Una generazione deve donare all’altra, insieme al senso del limite, la possibilità dell’avvenire" (M. Recalcati, Cosa resta del Padre?: La paternità nell'epoca ipermoderna, Cortina).

 

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Foto: ryzhi 123rf.com