Sviluppare il pensiero positivo aiuta davvero?

Contrastare gli schemi di pensiero negativi introducendo affermazioni ottimistiche e fiduciose… Questi in sintesi gli elementi del pensiero positivo. Ma i pensieri “negativi” sono davvero da eliminare?

Sviluppare il pensiero positivo aiuta davvero?

 

“Io penso positivo Perché son vivo e finché son vivo…” cantava Jovanotti (1994), attenzione però: il pensiero positivo non è una sorta di panacea per guarire ogni male e non è neanche detto che eliminare i pensieri negativi e sostituirli con altro sia la cosa più vantaggiosa. Vediamo perché.

 

Pensiero positivo e mainstream

Il pensiero positivo propone tecniche per migliorare la propria vita e gestire i propri stati mentali mediante il controllo consapevole e intenzionale dei propri pensieri. Frasi e affermazioni “positive” vengono utilizzati per contrastare pensieri spiacevoli  e modificare il proprio atteggiamento nei confronti della vita.

Negli ultimi decenni questa corrente è stata seguita e sviluppata da diversi filoni di pensiero: dalla psicologia positiva, alle più eterogenee correnti new age.

Il rischio però è che questo concetto vada ad avallare una certa convinzione diffusa nel mainstream della società attuale dove tutti siamo chiamati ad essere sempre positivi, sorridenti ottimisti e attivi. Vietato essere tristi, vietato fermarsi o indugiare su pensieri o stati d’animo negativi. I manuali di self help ci spronano continuamente a migliorarci, l’attuale società dei consumi ci propone continuamente soluzioni facili e immediate per distrarci da noi stessi (fare shopping, andare in palestra, mangiare cibi iperpalatabili o osservare altri che lo fanno come nel Mukbang ecc..)…

Tutto, insomma, sembra suggerirci di “non pensare”, mettere da parte tristezza e disagio e sostituirli con attività o… pensieri piacevoli! “Basta crederci” dunque?

 

Eliminare i pensieri negativi?

Priviamo a chiederci anzitutto: perché dovremmo eliminare i pensieri negativi?

La domanda non è poi così banale, che la sofferenza umana sia qualcosa che si esprime mediante schemi ricorsivi e ripetitivi è storia nota. Lo stesso Freud aveva definito questo meccanismo “coazione a ripetere”, cioè la tendenza degli esseri umani a rimettere in atto schemi sintomatologici, comportamentali o relazionali disfunzionali e causa di sofferenza soggettiva. 

Un’apparente auto-sabotaggio mediante il quale sembrerebbe che le persone tendano a ripercorrere le strade che perpetuano il loro dolore piuttosto che cercarne si nuove. E allora, verrebbe naturale domandarsi, perché non interrompere questo circolo vizioso imponendosi di pensare a qualcosa di positivo? Il resto, si spera, seguirà…

In realtà le cose non sono così semplici e queste tecniche spesso funzionano solo nel breve periodo. Anzitutto perché imporsi di pensare a qualcosa di positivo mentre si è tristi, sfiduciati o angosciati può risultare per la mente una sorta di ingiunzione paradossale. Come se, in altre parole, ci imponessimo con la forza di volontà qualcosa che può accaderci solo spontaneamente. Lo sanno bene amici e parenti di quelle persone che in alcuni momenti della loro vita hanno attraversato una depressione:  spronarle a “tirarsi su”, ad uscire o anche solo ad alzarsi dal letto non ha ottenuto altro che l’effetto contrario.

Imporsi di non pensare a qualcosa non fa altro che rinforzare quel pensiero che vorremmo eliminare perché cerchiamo di modificare con la forza di volontà qualcosa che è tutt’altro che volontario.

 

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Pensiero positivo: quando è una trappola

C’è un altro aspetto che dovrebbe metterci in guardia dal pensiero positivo a ogni costo: a volte pensare positivo può essere dannoso e sostenere stati della mente disfunzionali. Un esempio è lo stato di euforia in cui si trovano le persone che inconsciamente negano la sofferenza depressiva “coprendola” con l’eccitamento maniacale: i loro pensieri ottimistici contengono una certa dose di irragionevolezza, un’autostima eccessivamente grandiosa e una scarsa capacità di giudizio che possono portarli a intraprendere iniziative rischiose e potenzialmente dannose per loro stessi o per altri.

Un altro esempio è il falso ottimismo che connota i pensieri di coloro che sono dipendenti dal gioco d’azzardo: ogni volta che subiscono una perdita piuttosto che fermarsi continuano a giocare, perché? Perché, disconoscendo la natura della propria condizione, si convincono ancora una volta che la vincita sia ormai vicina, che ormai basti poco a recuperare tutto quello che hanno perso in precedenza… Invece di riconoscere la realtà della perdita, si convincono di essere vicini al riscatto.

Tristezza, paura, ansia, scoraggiamento e altre sono tutte emozioni che, certo, procurano uno stato d’animo sgradevole, ma sono anche utili a farci riconoscere una fonte di pericolo, a farci elaborare una perdita, a segnalarci che le scelte che stiamo facendo forse non sono così giuste come pensavamo o che dentro di noi c’è una fonte di sofferenza emotiva che dobbiamo ascoltare e di cui dobbiamo occuparci.

Se pretendiamo di utilizzare il pensiero positivo per disconoscere tutto questo rischiamo di allontanarci da noi stessi.

 

Metodi di rilassamento e meditazione

Dunque, come constatarono Freud e gli altri dopo di lui, la sofferenza umana va attraversata ed elaborata, per interrompere la ripetizione della sofferenza occorre che ad essa si possa dare un senso invece di ripeterla indefinitamente o nasconderla con altro (è questo, per altro, il significato di molti sintomi psicopatologici).

Detto ciò, cosa possiamo fare per influenzare i nostri pensieri?

Diverse tecniche di rilassamento e meditazione “laica” sviluppate all’interno delle correnti psicologiche occidentali offrono strade e strategie per modificare non i nostri pensieri coscienti ma gli atteggiamenti inconsapevoli che li sostengono.

Non si tratta di pensiero positivo, ma di metodologie che consentono di accedere ad uno stato mentale rilassato, espanso, in cui si mette da parte la forza di volontà e si interviene sugli stati più inconsci della mente mediate la pratica della consapevolezza (come avviene negli esercizi di Mindfulness) o l’utilizzo delle immagini che spontaneamente emergono dall’inconscio (questo avviene ad esempio nei percorsi di Training Autogeno Superiore o di Immaginazione Attiva).

Riparare le nostre personali aree di sofferenza, invece di nasconderle, può rivelarsi una via per acquisire forza in noi stessi.

 

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Foto: christianchan / 123rf.com