Corpo femminile e pubblicità

Dalla rassicurante e gaia casalinga che stende il bucato alla graffiante e provocatoria top manager tutta curve, il corpo femminile occupa da sempre un vastissimo spazio nella pubblicità; icone spersonalizzate e reiterate in maniera spesso sorprendentemente ridondante nel tempo a dispetto di apparenti cambiamenti di mode, opinioni e credenze di valore. Una donna-oggetto invariabilmente espressione di stereotipi sessisti disumanizzanti.

Corpo femminile e pubblicità

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©Chian Meng P'ng / 123rf.com

Corpo femminile e pubblicità: un accoppiata vincente che da sempre è stata sfruttata per reclamizzare ogni sorta di prodotto dalle pagine delle riviste agli schermi televisivi fino all’era multimediale del web. Ma quali messaggi veicola il corpo femminile nella pubblicità? Queste “icone rosa” sono soggetti o oggetti del marketing mass-mediatico?

 

 

Corpo femminile e pubblicità: i primi studi

Non sono molti gli studi condotti sull’immagine e sul corpo femminile nella pubblicità.

 

Il primo pioneristico, quanto illustre, lavoro in merito è quello ad opera di Erving Goffman  (Gender advertisements, Studies of Anthropology of Visual Communication, 3, 1976) che che già negli anni ‘70 sottolineava l’imperante prevalenza di immagini femminili negli scenari pubblicitari. Questo perché era ed è tutt’oggi prevalentemente alle donne che gran parte della pubblicità si rivolge, donne quali figure chiave preponderanti nelle decisioni di acquisto e di consumo.

 

Donne il cui corpo femminile viene mostrato in una modalità spesso parcellizzata e oggettivata, in atteggiamenti plasticamente rassicuranti o sfacciatamente ammiccanti; icone insomma proposte come oggetto del desiderio maschile con cui le stesse donne finiscono con l’identificarsi.

 

Corpo femminile e pubblicità: gli studi attuali

Un recente studio condotto dall’Osservatorio GEMMA dell’Università la Sapienza di Roma esaminando l’evoluzione e l’avvicendarsi delle immagini e dell’uso del corpo femminile nella pubblicità dai tempi di Goffman a oggi è giunto a conclusioni apparentemente paradossali. 

 

Non è bastata l’era della liberazione sessuale, i cambiamenti apparentemente radicali della postmodernità, le modificazioni di ruolo di genere avvenute con i mutamenti socioculturali della coppia e della famiglia: gli stereotipi su cui si gioca l’immagine del corpo femminile nelle pubblicità sarebbero cambiati poco o nulla ricalcando invariabilmente i modelli di donna-madre rassicurante angelo del focolare e di donna-sexy oggetto, ancora una volta, spersonalizzato e agente all’ombra della presenza maschile.

 

Corpo femminile e pubblicità: i rischi sociali

Queste immagini unidimensionali (Panarese, P., 2012, Donne a una dimensione, Psicologia contemporanea, 234, 12-16) del corpo femminile nella pubblicità, irrealistiche, riduttive e parziali rischiano di veicolare messaggi dannosi e controproducenti.

 

Da un lato il problema, pervasivo anche nel campo della moda, della divulgazione di canoni di bellezza femminile impossibili da raggiungere che rischiano di influenzare negativamente il mondo degli adolescenti, e soprattutto di coloro che sono soggetti a manifestare disturbi alimentari e dell’immagine corporea.

 

In secondo luogo queste immagini oggettivizzano e spersonalizzano la donna, vista non più come persona ma come oggetto sessuale, anche quando giovanissima, alimentando quegli atteggiamenti e stereotipi sessisti e discriminatori spesso legati a fenomeni e episodi di violenza di genere.

 

La pubblicità esprime e contribuisce a creare una cultura di cui troppo spesso anche le stesse donne rischiano di essere fruitrici passive e inconsapevoli fino a ritrovarsi, paradossalmente, a invidiare quelle ostentate forme della bionda Peroni che mistificano e mortificano le “dimensioni”, fisiche e psicologiche, delle donne “reali”.

 

Il body positive e la “rivoluzione” nel mondo della moda

Goffman sarebbe sollevato dall’apprendere che negli ultimi anni c’è chi ha iniziato a far sentire la voce e far vedere i contorni delle donne “reali”, in carne e ossa. Il “Body Positive” è un movimento sociale sorto fra il
2010 e il 2011 che grazie anche ai social network ha incoraggiato ogni donna a valorizzarsi per come è rivendicando il diritto di ogni corpo femminile - quali che siano le sue forme, colori e dimensioni - ad essere amato, rispettato e accettato. 

 

Contro un unico concetto di bellezza stereotipata, contro l’imperativo assoluto della magrezza e contro dettami e criteri tradizionali della moda.

 

Una delle più note e importanti attiviste di questo movimento è la modella Ashley Graham, fra le prime indossatrici plus size a conquistare le copertine delle più importanti riviste, capofila di un’autentica rivoluzione giocata in passerella ma che mira ad arrivare a tutte le donne ispirando accettazione e rispetto per sé stesse. 

 

Nel suo libro Un nuova modella edito da Il punto di Incontro, la Graham racconta la storia della sua carriera e di come per lei, scalare le passerelle, abbia significato combattere una battaglia contro quegli standard che così a lungo hanno importo un unico modello di bellezza femminile in cui la maggior parte delle donne reali stenta a riconoscersi. Un libro che vuole essere di ispirazione e di stimolo a tutte le donne affinché imparino ad accettarsi, ad amarsi e a non far dipendere la propria autostima da meri canoni estetici:

 

“Il fulcro della mia forza non è la bellezza, ma la volontà di esplorare insieme ad altre le mie vulnerabilità più profonde, di parlare dei problemi che ogni donna ha in modo aperto e onesto. Indipendentemente da quanti stilisti, make-up artist o personal trainer mi aiutano ad apparire al meglio, anch’io combatto l’insicurezza, la frustrazione, il giudizio e il sentirmi brutta. Quando feci la mia seconda sfilata di lingerie durante la Settimana della moda di New York, stavo vivendo uno di quei momenti. (…) era quella stupida cosa che tante di noi si fanno da sole: mi sentivo più grassa di quanto non fossi l’anno prima. Non appena salii in passerella, cambiai il mio pensiero. Anche se vedere la mia cellulite su Instagram e su tutta la Rete non sarebbe affatto stata un’iniezione di fiducia, sapevo che dovevo guardare oltre e che stavo usando il mio corpo per cambiare la vita di qualcuno. Mi è stata data una voce non solo per sentirmi bene con me stessa, ma perché tu possa sentirti bene con te stessa” (pp. 209, 210).