Imparare a saper dire addio: 5 consigli emotivamente sani

Dire addio, separarsi, concludere un percorso. Sono tutti momenti in cui la parola “fine” attraversa la nostra vita aprendoci al nuovo e al cambiamento.

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©Antonio Guillem -123rf

Una mamma o un papà sta per uscire di casa lasciando il bambino con la baby sitter: preferisce andar via alla chetichella, in modo che il piccolo non inizi a piangere a e protestare vedendolo sulla porta di casa.


Può sembrare un metodo “indolore” per affrontare una temporanea separazione ma non è così: andar via senza salutarlo pone il bambino di fronte ad una separazione improvvisa che non può né gestire né comprendere, lo fa sentire tradito e lo confronta con un’esperienza per la quale gli altri possono da un momento all’altro “sparire” senza spiegazione.

I bambini, e anche gli adulti, hanno bisogno di imparare che le separazioni fanno parte della vita, che ad esse si può sopravvivere e che una persona che si allontana per un certo tempo da noi non smette di esistere e né di volerci bene.

Le separazioni quindi vanno vissute e non evitate, vediamo allora 5 consigli emotivamente “sani” per imparare a saper dire addio.
 

1. Costruire un piccolo “rito” di addio

Alcune persone cercano di evitare gli addii in ogni modo: non salutando i propri bambini prima di andarsene, come abbiamo visto. Oppure tagliando ogni comunicazione con un/una partner invece di dichiarare la propria intenzione di porre fine alla storia (è stato dato anche un nome a questo: ghosting ovvero sparire diventando un fantasma).

O, ancora, relazionandosi a qualcuno come se nulla fosse evitando poi di incontrarsi un’ultima volta per salutarsi; alcuni pazienti ad esempio – chiaramente non del tutto pronti ad affrontare una conclusione – si ritrovano improvvisamente a “non poter” venire all’ultima seduta concordata… E che dire di coloro che non vogliono in alcun modo essere accompagnati al treno o in aeroporto?

Gli esempi potrebbero continuare.. In questi casi ci si può separare solo evitando di dirsi addio, bypassando il momento di commiato; si sparisce, si taglia la corda senza dare la possibilità a sé e all’altro di salutarsi.

Sebbene si possa coltivare l’idea illusoria che così facendo si risparmierà (a sé e/o all’altro) il dolore dell’addio, queste separazioni “incompiute” o agite a tradimento si rivelano emotivamente dannose per entrambe le parti, lasciano delle ferite che difficilmente possono rimarginarsi e mantengono inalterata la credenza erronea – spesso inconsapevole – che le separazioni siano troppo dolorose per essere affrontate.

Bisogna invece prendersi cura dell’addio, condividerne con l’altra persona il senso e i sentimenti ad esso associati. Questi momenti possono rappresentare un’ulteriore occasione di intimità emotiva condividendo magari piccoli "riti" di cui solo le due persone che si separano conoscono il significato. Può trattarsi di un piccolo oggetto da regalare, di un foto scattata insieme, di un pupazzo messo vicino alla porta pronto a “monitorare” il ritorno del genitore.

Qualunque espediente può andar bene se idoneo a rappresentare simbolicamente, per le due persone, il momento – temporaneo o permanente - del commiato.
 

2. Attaccamento e separazione non sono in contraddizione

C’è un fraintendimento che spesso crea cruccio e sofferenza in chi deve gestire un addio (sia esso verso un bambino o un adulto): l’idea che separarsi sia in contraddizione con il legame affettivo.

Non sono poche le persone che per caratteristiche individuali e vissuti familiari hanno interiorizzato la credenza inconsapevole per la quale volersi bene significhi non separarsi, mai. Non separarsi non vuol dire solo non distanziarsi fisicamente, ma anche non litigare, non avere contrasti e quindi idee o opinioni divergenti, non deludersi mai su nulla.

Questa aspettativa esprime un fraintendimento molto diffuso sui legami d’attaccamento (cioè i legami affettivi di riferimento che instauriamo sia nell’infanzia che nell’età adulta) e cioè che essi debbano funzionare solo ed esclusivamente come “rifugio sicuro” in cui l’altro è fonte di sostegno e conforto nelle difficoltà. Ma, come affermò lo stesso Bowlby, questa è solo la metà della luna.

Nella misura in cui una persona rappresenta per noi un punto di riferimento affettivo, essa deve poter funzionare anche da “base sicura”, che cosa vuol dire? Vuol dire che è proprio la fiducia che nutriamo nella presenza e disponibilità del partner/genitore ecc. che ci incoraggia in comportamenti di esplorazione verso il mondo esterno.  

L’attaccamento sano favorisce l’interiorizzazione di un senso di sicurezza e appartenenza reciproca e incoraggia i bisogni di crescita di entrambe le persone. Questo consente ad ognuno dei due membri di potersi temporaneamente allontanare senza che ciò comporti sensi di colpa, sentimenti di rifiuto o senso di abbandono. In queste condizioni attaccamento e separazione non sono in contraddizione.
 

3. Accettare emozioni contrastanti

Corollario del punto precedente è che le temporanee o permanenti separazioni a cui tutti noi andiamo incontro nel corso della vita possono suscitarci stati d’animo contraddittori, composti di emozioni variegate, non uniformemente felici o tristi.

Ripensiamo all’esempio del genitore che sta per uscire di casa lasciando il bambino alla baby sitter: forse potrebbe sentirsi dispiaciuto di confrontare il piccolo con una temporanea mancanza, ma potrebbe anche sentirsi sollevato dal poter avere qualche ora da dedicare a sé o alla propria professione.

Il mestiere di genitore è sfibrante ed è sano e naturale concedersi delle piccole pause “rigeneranti”, questo tuttavia può alimentare molti sensi di colpa che se non riconosciuti come “parte del gioco” possono essere presi troppo alla lettera e, come si è visto, indurre il nostro genitore a scappare di casa in punta di piedi…

È invece sano e normale che in una separazione si possano provare sia sentimenti di tristezza che di sollievo e gioia. Può essere vero quando si chiude una storia d’amore dove pur nell’amarezza di ciò che non è andato si prova comunque affetto per l’ex partner; oppure quando si lascia la propria casa per trasferirsi in una nuova città: accanto all’eccitazione per la nuova vita che inizia si potrà provare anche tristezza e dispiacere per ciò che si sta lasciando, per le persone da cui ci si allontanerà di alcuni chilometri ecc. 

Si pensi alla nostalgia, qui vediamo molto bene come, a posteriori, le esperienze appartenenti ad un passato non più attuale si tingano di sfumature emotivamente ambivalenti: ricordi felici tinti contemporaneamente da una nota di tristezza.
 

4. Distinguere diversi tipi di separazione

Il bambino piccolo che immaginavamo nell’esempio precedente piangere e urlare disperato dietro alla porta di casa fa il suo “mestiere” di bambino: vive ancora ogni esperienza con intensità massima senza essere in grado di cogliere sfumature, gradualità e differenze.

Solo facendo esperienza del fatto che il genitore ritorna il bambino imparerà a cogliere il senso di una separazione temporanea e a mantenere nella sua mente la certezza che la mamma o il papà sono là fuori da qualche parte, ancora esistono anche se non li ha davanti a sé per qualche tempo. Naturalmente la durata di queste separazioni deve essere commisurata all’età del piccolo. In altre parole egli imparerà che la mamma o il papà non muore, non smette di esistere solo perché è uscito da casa. 

Nell’esperienza di vita di alcune persone questo passaggio non è così scontato, almeno sul piano emotivo. Si può vivere una separazione - ragionevole sul piano razionale - emotivamente “come se” fosse una perdita irreparabile.

Queste persone possono avere, alle volte, lutti traumatici vissuti in età precoci e/o storie di attaccamenti non del tutto sicuri vissuti nell’infanzia. Molte donne, ad esempio, che si ritrovano in una condizione di dipendenza affettiva, dove non riescono a lasciare un partner violento o inaffidabile, conoscono questa condizione: il senso di vuoto abbandonico che deriverebbe dalla separazione è per loro peggiore delle violenze o delle sofferenze subite nella relazione da cui sono dipendenti. In questi casi è importante richiedere aiuto.
 

5. Chiudere i cicli e aprirsi al nuovo

Non solo la perdita di una persona cara, ma ogni addio che costella la nostra vita può essere concepito come un piccolo o grande processo di lutto: una fase psicologica in cui ci si confronta con una perdita, si dà ad essa un significato e un posto entro la nostra memoria e si traggono da questo energie per investire sul nuovo. 

A volte siamo noi stessi a prendere la decisione di dire addio a qualcuno o a qualcosa, può trattarsi, come abbiamo visto, di un partner o di un contesto o progetto lavorativo in cui non ci riconosciamo più o di una soluzione abitativa che non rispecchia più le nostre esigenze. A volte ci si può sentire bloccati in una sorta di “empasse” dove si esita a prendere una decisione proprio per il timore di dire addio a una situazione che per quanto insoddisfacente è qualcosa di familiare, che ormai si conosce bene.

Eppure è fondamentale, per la salute e la realizzazione personale, saper riconoscere quando si sta chiudendo un ciclo: quando un’esperienza è diventata obsoleta ed è giunta al suo termine. Anzi è anche ciò che quell’esperienza ci ha dato fin qui, quanto ci ha permesso di crescere che può aver contribuito a sospingerci in avanti. Alle volte non diciamo addio solo a quello che non ha funzionato, ma anche a ciò che ci ha aiutato a crescere portandoci a desiderare nuove strade…


Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla. (Lao tse).