L'impatto psicologico della mascherina

La mascherina ha rimesso in discussione la prossemica e le modalità consuete del nostro linguaggio non verbale. Non per forza per peggiorare la qualità delle relazioni umane.

Mascherina Covid

Credit foto
© maridav / 123rf.com

L’impatto della pandemia sulla vita sociale e di relazione è rilevante sia dal punto di vista pratico che psicologico. La mascherina in particolare è diventata ormai simbolo della pandemia, ora desiderata e agognata come prima e irrinunciabile barriera contro il contagio, ora detestata e osteggiata come vincolo e limite alla libertà dei contatti interpersonali. 

 

Per alcuni si tratta solo di instaurare nuove abitudini contribuendo con l'uso della mascherina a mantenere il distanziamento fisico, altri risentono invece dell’isolamento e della perdita di punti di riferimento importanti, al di là delle misure di prevenzione concrete, e possono trarre beneficio dai percorsi di ascolto e sostegno psicologico per covid attivati in molte parti del Paese sia nel settore pubblico che nel privato sociale.

 

Vediamo allora qual è l’impatto psicologico della mascherina e di altre misure di protezione dal covid come il distanziamento sociale.
 

Distanziamento sociale e sovvertimento della prossemica

Non solo con naso e bocca coperti dalla mascherina, la nuova “etichetta” pandemica prevede infatti di mantenere la distanza fisica di almeno un metro. Questa misura ha costretto le persone a relazionarsi fra loro invertendo quelli che sarebbero i principi della prossemica.

 

Ordinariamente utilizzeremmo lo spazio in maniera inconsapevole e automatica per regolare distanza/vicinanza, confidenza/riservatezza dagli altri. Si tratta di processi comunicativi non verbali utilizzati con una varietà di scopi (intimità, diffidenza, dominanza, manipolazione ecc.).

 

Ciò vuol dire che solitamente manteniamo una distanza superiore a un metro soltanto dagli estranei o da coloro con cui intratteniamo rapporto di natura esclusivamente formale. Cosa accade quando invece siamo costretti a invertire le regole della prossemica? 

 

Un esempio, a cui eravamo fin troppo abituati in epoca pre-COVID, è quello degli affollamenti su tram e metropolitane che i pendolari conoscevano fin troppo bene. 

 

Nel momento attuale del coronavirus abbiamo invece la sfida contraria: preservare il legame e la confidenzialità nonostante il distanziamento sociale ci imponga di mantenere anche con i congiunti non conviventi una distanza fisica di almeno un 1 metro, relegandoli quindi entro lo “spazio sociale” che assegneremmo solo agli estranei. Siamo quindi costretti a reinventarci altri modi per compensare la “fame di pelle”.
 

La mascherina: perché ci sta antipatica?

Uno dei motivi per cui l’impatto psicologico della mascherina può essere tutt’altro che piacevole risiede probabilmente nella modalità con la quale il nostro cervello riconosce i volti

 

Siamo infatti naturalmente portati a riconoscere un volto umano come tale attraverso quella che è la sua globalità, non a partire dalle sue singole componenti. Pensate per un momento ad alcune “emoticons” presenti sulla famosa 

 

App di messaggistica WhatsApp: troverete anche l’icona di un naso, un orecchio o un paio di occhi… Bene se osservate uno ad uno questi disegni noterete facilmente che essi da soli non sono in grado di suggerirvi alcun immagine di un volto umano, nonostante siano effettivamente parti di esso! Ma la vostra reazione percettiva è ben diversa se provate semplicemente a disegnare un cerchio su un figlio e a inserire al centro due puntini equidistanti e sotto di essi una linea… Saranno sufficienti questi accenni “stilizzati” a suggerirvi la “gestalt” del volto umano. 

 

È d’altra parte quello che osserviamo in molti fenomeni di pareidolia: quelle illusioni percettive che ci portano a scorgere volti umani in oggetti inanimati. La mascherina dunque frammenta questa gestalt e ci costringe a riorganizzare le nostra abitudini percettive. 

 

La mascherina e le espressioni facciali

In quanto esseri umani abbiamo una sorta di preferenza innata per i volti umani che è presente già nei neonati e che li porta ben presto a discriminare il volto della madre da quello di un estraneo. Non per niente gli psicologi evoluzionisti (Ekman e Friesen, 1975) hanno da tempo dimostrato che esiste un’universalità innata a trasversale alle varie culture per le espressioni facciali delle emozioni primarie

 

La gestalt del volto umano dunque, la sua immagine globale, ci è indispensabile non solo per riconoscere le altre persone, ma anche per decodificare i loro stati emotivi a partire dalle loro espressioni facciali e questo solitamente lo facciamo concentrandoci soprattutto su occhi e bocca

 

La mascherina elimina la metà inferiore del viso di chi ci sta di fronte restituendoci un’immagine frammentata e parziale che non siamo abituati a decodificare. Questo significa allora che non siamo più in grado di empatizzare con gli altri? 

 

“A me gli occhi!”

Senz’altro l’impatto della mascherina sui bambini, specie se molto piccoli, può avere risvolti complessi, poiché non possiedono ancora le risorse cognitive e l’intelligenza emozionale nei bambini per sopperire sul piano verbale e rappresentazionale alla carenza di contatto fisico e visivo. Sebbene non dobbiamo dimenticare quanto i bambini siano per definizione portati ad adattarsi alle situazioni perché loro stessi vivono un momento dello sviluppo che li pone davanti a continui cambiamenti.

 

Ad ogni modo, nonostante la mascherina, non tutto è perduto
Ci sono alcuni studi molto interessanti sulle modalità di relazione e decodifica dei volti velati nelle popolazioni che per cultura e tradizione sono solite coprirsi parte del volto. Da questi studi emerge che quando ci copriamo la bocca amplifichiamo molto la mimica degli occhi. Chi ci guarda a sua volta presta molta più attenzione a questa parte del nostro viso rispetto al solito. È quello che accade nelle popolazioni che sono solite coprirsi il volto: ad esempio gli egiziani sono più competenti al riconoscimento dei volti “velati” rispetto agli occidentali (Megreya  &  Bindemann, 2009). 

 

Sembra dunque che la mascherina ci imponga di sviluppare competenze nuove riguardo all’attenzione e all’osservazione che facciamo degli altri.
 

Siamo esseri resilienti

L’impatto psicologico della mascherina e del distanziamento sociale è a prima vista disorientante, ma, come si è detto, potrebbe rivelarsi un’occasione per sviluppare nuove modalità di interazione non necessariamente meno importanti delle precedenti. 

 

Non dobbiamo dimenticare che, come esseri umani, siamo esseri resilienti, in grado cioè di adattarci ai cambiamenti e far fronte alle situazioni di difficoltà traendone nuova forza (Colchado, 2013; Rubano, 2020). 
Il distanziamento fisico e l’uso della mascherina ci impongono una barriera a un contatto più spontaneo e immediato, ma non per questo meno significativo. In assenza della totalità dei volti, forse verbalizzeremo maggiormente le nostre emozioni e diventeremo osservatori /ascoltatori più attenti, guardandoci magari maggiormente negli occhi e distogliendoli dal nostro onnipresente smartphone.

 

E chissà che non saremo costretti a fare minor affidamento a distorsioni cognitive e stereotipi per valutare frettolosamente una persona dalla “prima impressione”, dando magari all’altro il beneficio del dubbio…


Bibliografia

Colchado O.C. (2013), La Atribucion Causal y Las Emociones Negativas (Depresion), Grin Verlag, Munich. 
Ekman, P., Friesen, W.V. (1975). Unmasking the face: A guide to recognizing emotions from facial clues. Englewood Cliffs, N.J., Prentice-Hall.
Megreya A.M. &  Bindemann M (2009). Revisiting the processing of internal and external features of unfamiliar faces: the headscarf effect, Perception, 38(12):1831-48.
Rubano C. (2020). Pandemia da SARSCoV2 fra traumatizzazione e resilienza: aspetti adattivi e disadattivi dell’umorismo nella popolazione generale e nel personale sanitario, La Rivista Medica Italiana 3/2020.