Restrizioni sociali: le motivazioni di chi non resta a casa

Sprovveduti con una deliberata intenzione di nuocere? Le motivazioni riguardano meccanismi psicologici di tutti noi, anche di chi rimane in casa a sbircia dalla finestra alla ricerca del “colpevole".

Coronavirus multe restrizioni

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Ilaria Capua, virologa di fama internazionale, ha efficacemente descritto il nuovo coronavirus come un virus “scippatore”: se aggredisce i giovani nella stragrande maggioranza dei casi non causa gravi danni, ma se colpisce persone fragili o anziane spesso può avere conseguenze molto importanti. 

 

Questo impone che le persone, nella maggioranza dei casi, debbano osservare restrizioni e norme comportamentali protettive per la salute pur non avendo avuto esperienza diretta della pericolosità della minaccia. Questo  può portare ad ignorare o negare la realtà perché un pericolo che non si conosce, non si può né vedere né toccare con mano è incontrollabile, teoricamente ovunque (come un’infezione largamente asintomatica è) e per questo molto più difficile da gestire anche psicologicamente. Quali sono allora le motivazioni di chi sembra sminuire il pericolo e non voler “restare a casa”? 

 

Il “nemico” a cui dare la caccia

Di fronte a una minaccia incontrollabile la mente può reagire in due modi opposti: cercando un “nemico” esterno, concreto – una sorte di capro espiatorio – contro cui difendersi per recuperare un senso di controllo sugli eventi. Oppure negando la realtà del pericolo, sminuendola. 

 

Ed è quanto fanno da un lato coloro che alimentano teorie del “complotto” riguardo alla genesi del nuovo coronavirus e adottano atteggiamenti di diffidenza verso gli altri; dall’altro coloro che minimizzano l’utilità delle norme anti-contagio e – come si è visto soprattutto all’inizio dei vari lockdown e si rischia di tornare  a vedere in una successiva cauta riapertura – tendono a comportarsi come se nulla fosse o, peggio, ad adottare comportamenti di “sfida” mettendo in pericolo sé stessi e gli altri.

 

Neanche a dirlo, fra le due categorie si osserva spesso una stretta relazione, come sottolinea Julia Shaw su Psychology Today: coloro che hanno bisogno di individuare un “nemico” si scagliano facilmente su coloro che sembrano adottare comportamenti incauti accusando più o meno esplicitamente queste persone di voler diffondere intenzionalmente il contagio. Quella proverbiale “caccia all’untore” che, dai tempi della peste manzoniana, non sembra passare mai di moda…
 

Perché gli altri fanno quello che fanno

Perché accadono fenomeni come questi? Le persone incaute o negazioniste hanno realmente la deliberata intenzione di nuocere agli altri? Solitamente no, eppure molto spesso si attribuisce loro un’intenzionalità di questo tipo in modi spesso automatici, stereotipali e semplificanti

 

In situazioni di massa in cui si percepisce una minaccia per la propria sopravvivenza, le persone possono regredire a modalità di funzionamento mentale piuttosto arcaiche, difettando in larga parte di quella che solitamente è la loro capacità di mentalizzazione, ovvero la capacità di avere in mente che i comportamenti propri e altrui sono mossi da emozioni, bisogni e intenzioni non sempre consapevoli, spesso contraddittorie e potenzialmente diverse da quelle che noi abbiamo in mente. In altre parole: non tutto è come appare

 

Questo presuppone la possibilità di avere una “teoria della mente” sufficientemente complessa da considerare che un unico comportamento può avere molteplici spiegazioni/motivazioni, diverse da persona a persona e non di rado in contrasto tra loro anche entro lo stesso individuo (si pensi alla contraddizione, tutta di questi tempi, fra sopravvivenza sociale-lavorativa e sopravvivenza fisica). È proprio questo che può venire meno in condizioni di minaccia. 

 

Ma se coloro che mostrano maggiori resistenze a “restare a casa”, nella maggior parte dei casi non hanno un deliberato intento di nuocere agli altri, quali altre motivazioni potrebbero portare a non rispettare maggiori cautele?
 

Tra diffidenza e negazionismo

Va detto anzitutto che è semplicistico immaginare di poter dividere le persone in due rigidi spartiacque: da un lato coloro che, conformi alle direttive, rimangono a casa e dall’altro coloro che escono, tendono a voler fare la vita di sempre e ignorano la realtà dei fatti. 

 

 

Probabilmente la maggioranza delle persone si trova nel mezzo di questi due estremi, comunque più vicina al polo dei comportamenti più cauti.

 

 

Certo, con delle possibili differenze, non dimenticando però che in ognuno di noi coesistono, in ogni caso, due tendenze: quella a rinchiudersi nella propria “tana” dismettendo qualunque contatto con il mondo esterno e alimentando vissuti di sospetto e diffidenza e quella a ribellarsi e riprendersi la “libertà” e la “normalità” perdute in ottemperanza al pensiero magico della mente per cui se le cose tornano a sembrare normali allora è “come se” la minaccia non esistesse (atteggiamento non molto diverso, in fondo, da quello di chi, per paura di ricevere una diagnosi infausta, rifiuta di fare controlli medici esponendosi così veramente al rischio di veder avverati i suoi timori più grandi). 

 

 

Ne risulta che, a livelli impliciti, coloro che negano la realtà e tendono a fare come se nulla fosse potrebbero essere angosciati e spaventati almeno quanto, se non di più, coloro che si chiudono in casa e si impegnano nella caccia all’untore. Entrambi di fronte alla minaccia cercano, sebbene in modi diversi (con esiti comportamentali opposti), di recuperare un senso di controllo sugli eventi. Tornando alla “normalità” che conoscono e padroneggiano i primi; cercando un capro espiatorio per rendere “concreta”, visibile e quindi meglio controllabile la minaccia i secondi.
 

Disinformati e impotenti?

Posto quindi che, quella di non voler restare a casa può essere una delle tendenze psicologiche di tutti noi – a prescindere dal comportamento poi adottato a livello concreto – vediamo quali motivazioni la sottendono, mettendo un attimo da parte teorie cospirazioniste e semplificanti.
La Shaw, citando alcune ricerche in tal senso, propone alcune ipotesi interessanti.

  • L’infodemia. La ridondante e contraddittoria mole di informazioni cui siamo esposti, può rendere piuttosto complesso discriminare fra notizie vere e false, fra consigli affidabili e privi di fondamento. Ma se in rete – su qualunque argomento per altro – si può leggere tutto e il contrario di tutto è anche vero che noi tendiamo spesso a selezionare quelle informazioni che già si accordano con la nostra visione del mondo, le idee e l’interpretazioni che abbiamo scelto di dare agli eventi. E non avremo difficoltà, purtroppo, a trovare articoli che minimizzano il problema del nuovo coronavirus come “banale influenza” se è a questo che vogliamo credere.
  • Il sensazionalismo dei media. A furia di ricevere notizie allarmanti e sensazionalistiche su ogni aspetto della nostra vita, come se ogni cosa che accade avesse il carattere di una crisi epocale (si pensi al semplice caldo estivo…) potremmo esserci abituati a non prendere sul serio gli allarmi lanciati dai media, avendo sviluppato una sorta di “sensibilizzazione” che non ci permetterebbe di cogliere il pericolo quando poi il “lupo” arriva davvero…
  • Un senso di impotenza che, di fronte alla natura non solo incerta ma anche mutevole della minaccia (quel che ieri era ragionevole fare oggi può esser considerato rischioso e viceversa, vedasi la mai chiarita diatriba sull’uso delle mascherine), può indurci a “gettare la spugna” e rinunciare a seguire certi comportamenti perché vissuti comunque come inutili e inefficaci. La mente allora tenderà facilmente a “riprendersi” stili di vita che già conosce su cui ha sperimentato di poter avere il controllo, con tutti i rischi che ne possono conseguire sul piano sanitario.
     

Informarsi sì, ma con la “testa”…

La modalità con cui vengono date certe notizie e la nostra capacità a tollerare l’incertezza e elaborare un pensiero critico su quanto apprendiamo sembrano rappresentare ingredienti molto importanti, non solo per l’economia del benessere psicologico, ma anche per la possibilità di adottare comportamenti protettivi con ricadute pratiche, concrete, per la salute propria e degli altri. 

 

Non basta informare e informarsi, non basta il “cosa” viene detto o letto; ma è fondamentale il “come” queste  notizie/indicazioni vengono pensate e risignificate nella nostra mente, perché noi esseri umani riusciamo ad adottare anche i comportamenti più estremi e destabilizzanti per i nostri stili di vita, ma per farlo non solo dobbiamo avere una buona ragione, dobbiamo anche poterci sentire capaci, efficaci; abbiamo bisogno di percepire che quello che facciamo ha una ricaduta concreta sugli eventi e che è in questo modo (e non ignorando il problema) che riprendiamo il controllo sugli eventi.