In che modo i ruoli sociali definiscono la nostra identità

Tutti noi impersoniamo ruoli sociali che contribuiscono a definire la nostra identità. Queste “parti” che ci troviamo in qualche modo a interpretare sono elementi autentici o maschere che livellano la nostra personalità?

Maschere e ruoli sociali

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“C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno”. (Pirandello)

 

Quanto c’è di vero in questa affermazione di Luigi Pirandello? I nostri ruoli sociali sono sempre maschere costrittive che implicano una rinuncia alla nostra identità più autentica? Fino a che punto con gli altri recitiamo una parte che non è la nostra? Vediamo cosa dice al riguardo la psicologia.

 

Le origini sociali della nostra identità

Gli psicologi dello sviluppo all’inizio erano per lo più convinti che gli esseri umani venissero al mondo in uno stato psicologico di estrema incompetenza relazionale. Le prime teorizzazioni cioè tendevano ad attribuire ai neonati caratteristiche mentali molto limitate se non del tutto assenti. 

 

Gli studi successivi hanno invece evidenziato che il neonato possiede delle competenze relazionali precocissime mediante le quali sarebbe “naturalmente” portato a stabilire una sorta di “danza” relazionale con la madre o chi si prende cura di lui. Alcuni psicologi hanno osservato che già dall’allattamento il neonato utilizza questo “rituale” quotidiano non solo come fonte di nutrimento, ma anche per stabilire un contatto interattivo: fa delle pause durante le quali osserva il volto della madre o ascolta la sua voce, apre e chiude la bocca, protrude la lingua e osserva l’adulto replicare questo suo comportamento non verbale (tutto ciò avviene in modo spontaneo e irriflessivo nella madre che altrettanto spontaneamente tenderà a rivolgersi al bambino con quel tipico tono di voce lento, scandito e dai toni acuti che viene denominato “madrese” e che è particolarmente indicato ad attirare l’attenzione del piccolo).

 

Queste ripetizioni interattive diventano via via più familiari e sofisticate. Gli esseri umani, dunque, sono naturalmente portati a stabilire un contatto interattivo. Non potremmo d’altronde definirci come persone se non avessimo avuto relazioni precoci entro le quali strutturare un nostro primitivo senso di identità

 

I bambini imparano a discriminare le loro emozioni, a riconoscere i loro bisogni, a valorizzare le proprie caratteristiche grazie al rispecchiamento degli adulti. E imparano parallelamente cosa aspettarsi dalle
interazioni affettive: da come queste si strutturano abitualmente essi apprendono dei “modelli” interattivi che rimandano loro delle aspettative sull’altro (ad esempio se è affidabile, irascibile, tranquillizzante),
su sé stessi (se vengono percepiti come buoni, degni di affetto) e sullo scambio interattivo (le ritualità che si ripetono giorno dopo giorno come quando il bambino piange la madre arriva a consolarlo prendendolo in braccio e mettendo una musica a lui gradita).

 

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Realizzare sé stessi nei ruoli sociali

Da quanto prima accennato comprendiamo come una parte fondamentale della nostra identità derivi e si strutturi fin dall’inizio entro le relazioni con gli altri. Man mano impariamo a definirci e a riconoscerci come persone in maniera autonoma e indipendente, ma insieme a questo iniziamo anche a partecipare a contesti sociali diversi dalla famiglia, strutturiamo cioè delle appartenenze sociali multiple – la famiglia, gli amici, il lavoro, il gruppo sportivo – a cui corrispondono altrettanti ruoli sociali che contribuiscono a definire la nostra identità, cioè chi siamo noi. 

 

Tutto questo è assolutamente naturale e sano, ce ne rendiamo tristemente conto in occasione di un lutto: insieme alla persona scomparsa, piangiamo anche quella parte della nostra identità che esisteva grazie al rapporto che ci legava ad essa (essere per esempio marito, figlio, allievo di…). 

 

Per questo motivo il lutto implica un graduale lavoro di rielaborazione del dolore, perché implica non solo l’accettazione (emotiva e cognitiva) della perdita di una persona, ma anche un rimaneggiamento della propria identità.

 

Questa dipendenza che noi abbiamo per tutta la vita dai ruoli sociali per la strutturazione e ridefinizione della nostra identità può essere un elemento vitale e creativo: ogni relazione o ogni appartenenza sociale possono darci occasione di ampliare l’espressione della nostra personalità, realizzare alcune nostre aspirazioni, superare alcuni nostri limiti. 

 

Si pensi a quelle persone che hanno in sospeso la realizzazione di un traguardo e che si sentono finalmente in condizione di farlo nel momento in cui accedono a una relazione di coppia appagante e gratificante in cui il partner rimandi loro stima e incoraggiamento. O a quanti hanno superato dei loro limiti grazie a un docente o un allenatore stimato che ha creduto in loro o a un gruppo di amici o colleghi. In simili circostanze i ruoli sociali che ci legano agli altri possono rappresentare un tramite per esprimere le nostre potenzialità in modi autentici e appaganti.

 

Cosa accade quando invece questi ruoli diventano una gabbia che ci penalizza e ci costringe a recitare una parte fittizia o limitata? 

 

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Identità fittizie

Reich la definiva “corazza caratteriale”, Jung usava il termine “persona” – in assonanza etimologica proprio con le “maschere” che nel teatro greco identificavano i personaggi – in modi e accezioni differenti: entrambi si riferivano a condizioni in cui gli esseri umani si ritrovano ad aderire a ruoli sociali fittizi e stereotipati, non corrispondenti con la loro natura più autentica e le radici di tale distorsione sarebbero all’interno della persona e delle relazioni in cui è inserita.

 

Jung diceva che l’essere umano poteva correre il pericolo di snaturare il proprio modo di essere quando il suo Io si identificava con la “persona”, il ruolo o maschera sociale, abdicando a caratteristiche più ampie e variegate della propria natura. È ciò che avviene dolorosamente in quelle persone che senza volerlo finiscono col definirsi esclusivamente sulla base di ciò che gli altri pensano o si aspettano da loro. 

 

Queste persone sembrano aver strutturato gran parte del proprio senso di identità sulla base del “sono come tu mi vuoi” e avere molta difficoltà non solo a contraddire e deludere le attese degli altri, ma anche a comprendere cosa autonomamente desiderano per sé stesse. Quando si ritrovano sole, prive della conferma o del sostegno fornito dagli altri, possono sperimentare intensi vissuti di vuoto e smarrimento.

 

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Il teatro come scuola di vita

Copertina libro L'attore di Don Miguel Ruiz
Don Miguel Ruiz

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©Don Miguel Ruiz, depositario della saggezza sciamanica della tradizione tolteca, si è occupato da scrittore di come cambiare la nostra mente per cambiare la nostra vita. I suoi libri, tra cui I Quattro Accordi e Il Quinto Accordo, sono tutti best-sellers e combinano saggezza ancestrale e nozioni scientifiche.

L’ultimo libro di Don Miguel Ruiz L’attore. Come vivere una vita autentica (edizioni Il Punto di incontro) è dedicato a come la nostra vita può essere ben assimilata a un’opera teatrale di cui noi possiamo essere non solo gli interpreti, ma anche gli autori scegliendo i ruoli da interpretare e rivendicando la nostra autenticità.

 

Come fare però ad osservare e a riconoscere quanto c’è di “finto” e quanto di autentico nei “personaggi” del nostro teatro interiore? Chi volesse saperne di più non può perdere il live streaming con la presentazione del libro giovedì 3 giugno 2021 alle ore 20.30 in cui il celebre scrittore di fama internazionale incontrerà il pubblico italiano.

 

“Tu sei un essere autentico, indipendentemente da come sviluppi le tue capacità di recitazione e da quanto brami avere un pubblico davanti a te. Gioca con la vita. Gioca con i tuoi colleghi artisti. Approfitta di ogni
opportunità per saperne di più sul mistero che sei”

(L’Attore, Don Miguel Ruiz, p. 135).

 

Può darsi che in alcuni periodi della vita si sperimenti una transitoria vulnerabilità identitaria che porta ad aderire in modi semplificati e spersonalizzanti ai dettami di un gruppo o alle attese di una particolare persona. In altri casi, può trattarsi di una modalità più stabile che può inibire la costruzione o l’espressione di un’identità più autonoma e autentica.

 

Molti hanno utilizzato il teatro per comprendere e spiegare questo dilemma tra “apparire” ed “essere” che, a ben vedere, è stato presente anche all’interno delle stesse scuole di recitazione. Da un lato il cosiddetto metodo Brecht dell’espressività esagerata e artefatta fondata su un processo di straniamento; dall’altro il metodo Stanislavskij che si fonda invece sull’immedesimazione dell’attore nel personaggio basata sulla ricerca di un’affinità tra il mondo interiore di questo e il proprio. 

 

L’attore, insomma, recita superficialmente e artificiosamente un ruolo o lo impersona in maniera autentica? Quali che siano le varie scuole di pensiero nel teatro, certamente la seconda soluzione è quella che risulta più vantaggiosa per i ruoli sociali che ricopriamo nella vita.