Selfie e falsi miti sul narcisismo

Autoscatti fugaci, dotati dell’immediatezza di un click. Controllati modificati e ritoccati fin quando non aderiscono all'immagine ideale che di sé stessi si vuol condividere alla ricerca di like e approvazioni… Epifenomeno del narcisismo digitale o semplice moda?

Selfie e falsi miti sul narcisismo

Viviamo oggi in quella che è stata definita l’era del narcisismo (Paris, 2013) o modernità liquida (Bauman, 2000): un’epoca fondata sul culto dell’immagine di sé, fortemente individualista e consumista che ha visto da tempo disgregarsi le tradizionali istituzioni di socializzazione “reale” per rifugiarsi nelle tante opportunità di condivisione e connessione del mondo virtuale.

Un fenomeno che sembra causa e al tempo stesso effetto della massiccia diffusione delle nuove tecnologie, quelle che in un istante ci permettono di raggiungere migliaia di persone, di resocontare i tratti più o meno salienti delle nostre vite come fossimo tutti personaggi “pubblici”.

I selfie sembrano rappresentare il fenomeno più vistoso di questo sistema digitale: le esperienze sensoriali, concrete, offline sembra siano destinate sempre più spesso a dover essere immortalate in un autoscatto condiviso su Facebook prima di essere effettivamente vissute.

Tanto che viene il dubbio che possa verificarsi un inquietante fenomeno di inversione figura-sfondo: l’importante è vivere le esperienze o poterle documentare attraverso i selfie? Dove risiede la maggior parte della “realtà” percepita come tale: davanti o dietro lo schermo del telefonino?

C’è chi denuncia un ondata di narcisismo planetario e accusa i selfie di esserne in qualche modo la causa. Non è detto che le cose siano così semplici e scontate. Cerchiamo di fare chiarezza…

 

Narcisismo e uso dei selfie

Pamela Rutledge, della Massachusetts School of Professional Psychology, analizzando la radice del termine “selfie” ha osservato che esso rimanderebbe nel suo significato non solo a sinonimo di “autoscatto” ma potrebbe anche venir tradotto appropriatamente come “piccolo sé”.

Questo “selfie-piccolo sé” appare spesso come una sorta di surrogato delle identità individuali e delle connessioni relazionali. Alcune ricerche evidenziano per altro come l’utilizzo massiccio dei selfie e dei social network risulti significativamente elevato in coloro che risultano avere evidenti vulnerabilità narcisistiche o veri e propri disturbi narcisistici della personalità.

Costoro, ad esempio, aggiornerebbero più spesso il proprio “stato” su facebook, pubblicherebbero molti più selfie e affermazioni di glorificazione di se stessi. Le nuove tecnologie, in altre parole, rappresenterebbero una sorta di cassa di risonanza per le persone con problematiche narcisistiche della personalità diventando un ulteriore contesto nel quale costoro cercherebbero approvazione e ammirazione per la propria immagine.

Attenzione però a non lasciarsi tentare da facili generalizzazioni: è piuttosto errato dedurne che i selfie – o qualunque altra moda del momento – ci rendano tutti un po’ più “narcisisti”. Vediamo perché.

 

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Narcisismo normale e patologico

Anzitutto una precisazione che non è mai superflua. Il narcisismo in sé non identifica un disturbo psicologico, ma un tratto normale, “fisiologico”, della personalità di ognuno di noi.

Tutti noi per vivere non abbiamo bisogno solo di aria, acqua e cibo ma anche di poter contare su una buona autostima, una buna immagine di noi stessi, di poterci insomma percepire come persone sufficientemente “buone”, amabili e apprezzabili.

E ogni qual volta sentiamo che questo retroterra psichico – indispensabile per la nostra sopravvivenza psicologica  - viene messo a repentaglio facciamo di tutto per difenderlo.

È sano dunque voler mantenere una buona immagine di sé, aver bisogno di sostenere la propria autostima e, in una certa misura, volere anche ricevere apprezzamenti e conferme dagli altri (nessuno di noi credo vorrebbe risultare totalmente indifferente a coloro che lo circondano).

Il confine fra narcisismo sano e patologico è dato dalla solidità o fragilità dell’immagine che abbiamo di noi stessi, da quanto difficilmente o facilmente il senso della nostra identità, di chi noi siamo può venir messo a repentaglio anche dal minimo fallimento o dalla più pacata critica.

Il narcisismo patologico poggia su questa fragilità identitaria, su questa evanescente stima di sé ed è per questo che la persona ricerca affannosamente conferme esterne, tenta di sostenere un’immagine apparentemente grandiosa e arrogante pur di non lasciar trapelare la propria debolezza.

È qui che l’apparire, anche mediante i selfie, diventa un’operazione “vuota”, relazionalmente priva di significati se non quello di strumentalizzare l’altro ai fini del sostegno della propria autostima. L’obiettivo del selfie in questi casi non è quello di “condividere”, di aprire uno scambio/dialogo con l’altro, ma solo quello di ottenere conferme e apprezzamenti (fino a suscitare invidia).

 

I selfie ci fanno "ammalare" di narcisismo?

Posto che evidentemente selfie, smartphone e social network – essendo figli digitali dell’epoca attuale – costituiscono strumenti che amplificano e danno risonanza alle vulnerabilità narcisistiche di coloro che avvertono un disagio in tal senso, che ne è degli altri?

Quelle narcisistiche non sono le uniche vulnerabilità/problematiche che le persone possono vivere o esprimere mediante anche le più banali azioni quotidiane. E certamente è difficile dire che i selfie di per se stessi siano indiscriminatamente segno di psicopatologia.

In altre parole: quanto cercare si descrivere mediante termini della psicopatologia individuale – come il disturbo narcisistico di personalità – l’epoca attuale si rivela effettivamente utile a comprenderla e a orientarci in essa?

“Sembriamo” tutti narcisisti messi lì davanti allo smartphone intenti a fotografarci insieme a una pizza prima di deciderci a mangiarla (e pazienza se intanto si raffredda!), ma lo siamo? E se non è così, non sempre almeno, cosa siamo? Cosa, quell’attitudine ai selfie, rivela di noi, uomini e donne del terzo millennio?

 

Farci selfie ci distrae dalle esperienze “reali” che viviamo?

Se avessimo la macchina del tempo varrebbe la pena fare un balzo in avanti di 10 o 20 anni per scoprire cosa le future ricerche nel campo della psicologia, psichiatria e scienze sociali saranno in grado di svelarci su un fenomeno – quello delle ripercussioni del digitale sulle identità individuali e le relazioni sociali – che appare oggi ancora piuttosto nuovo, in divenire, “giovane” quanto a oggetto degli studi scientifici.

Alcune cose però iniziamo a intravederle e forse riguardano anche i tanto amati/odiati selfie, dobbiamo però andare oltre quello che appare più evidente. A prima vista infatti, ci soffermiamo sull’oggetto che ritraggono, noi stessi, e ci interroghiamo sui loro possibili significati narcisistici.

Ma i selfie potrebbero avere altre ripercussioni sulla nostra psiche?

Diversi studi condotti sull’utilizzo di social network e smartphone hanno evidenziato un aspetto che appare trasversale a ogni tipo di utilizzo che facciamo del nostro apparecchio digitale: lo tocchiamo continuamente, lo controlliamo in continuazione, siamo costantemente richiamati dai suoni delle sue notifiche e praticamente un’appendice insostituibile per ogni attività umana o quasi.

Il problema è che in questo modo ci stiamo abituando a venire interrotti sempre più di frequente in ogni nostra attività: solo la vista dello smartphone ci distrae, ci induce a controllarlo anche senza ricevere notifiche e ci abitua a mantenere parte del nostro cervello costantemente in “allerta” aspettandoci che da un momento all’altro l’infernale apparecchio potrebbe suonare, vibrare e quant’altro…

Tutto questo sottrae energie alla nostra capacità di concentrazione e attenzione che secondo alcuni si attesterebbe ormai a livelli inferiori a quelli di un pesce rosso.

 

Come utilizziamo i selfie?

Viene da domandarsi se tutto questo non abbia una qualche attinenza anche coi selfie, non con l’oggetto di queste immagini (noi stessi), ma con il processo, con la modalità mediante la quale vengono scattate. In altre parole: quanto, l’abitudine di scattarci un selfie per documentare/condividere le nostre esperienze, influenza il modo in cui viviamo quelle stesse esperienze?

Se non possiamo mangiare una pizza senza fotografarci con essa, se distogliamo continuamente l’attenzione da quello che vediamo – sia esso un paesaggio o un episodio a cui assistiamo – per riportarla a noi stessi, quanto siamo liberi di immergerci nelle esperienze della nostra vita? I selfie sembrano lì pronti a “interromperci” così come le notifiche delle email o di facebook ci distolgono decine di volte al giorno dal nostro lavoro o dalle nostre conversazioni.

L’esperienza che ci affanniamo a ritrarre attraverso un selfie sarebbe stata la stessa se ci fossimo permessi – quasi “ereticamente” – di viverla senza doverne lasciare traccia attraverso noi stessi sulla bacheca di facebook?

Come sempre, nessuna risorsa tecnologica in sé è buona o cattiva, dipende dall’uso che se ne fa e, si potrebbe aggiungere, dipende da quanto siamo disposti a riflettere, ragionare, pensare su questo.

 

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Foto:  Andrii Shevchuk / 123rf.com