Lamentarci: perché lo facciamo e come possiamo smettere

Lamentandoci avalliamo il nostro vissuto di immobilità e impotenza di fronte al problema. La lamentazione è quasi sempre una strategia di relazione disfunzionale ma possiamo… invertire la rotta!

lamentarsi

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Lamentarsi è un’emozione frequente nella vita quotidiana agita da individui e/o gruppi come strategia relazionale mediante la quale rifiutare/negare elementi di difficoltà/ingiustizia arroccandosi in una posizione di denuncia “permanente” che sollecita gli altri a schierarsi a proprio sostegno.

 

Lamentarsi è quindi un’emozionalità che fa sempre riferimento alla relazione sociale: non possiamo lamentarci senza contemplare (esplicitamente o implicitamente) almeno altri due elementi: l’oggetto della lamentazione e una terza persona (concretamente presente o implicitamente richiamata alla mente) che “assiste” al lamento e viene chiamata a schierarsi nostro sostegno e a prendere parte a esso.
 

Lamentarci invece di protestare attivamente

Lamentarsi è un termine qui utilizzato per indicare una specifica modalità di interpretare/reagire agli eventi quando questi deludono le nostre attese/pretese (Carli & Paniccia, 2003). 

 

La si intende dunque in un’accezione ben diversa dalla protesta intesa in senso civico/politico come atto collettivo di autodeterminazione e rivendicazione di diritti. 

 

Quando ci ritroviamo a lamentarci non stiamo “attivamente” protestando e ribadendo con assertività i nostri diritti/bisogni. Ma, al contrario, ci stiamo ponendo un ruolo passivo di vittime rischiando in tal modo di rendere del tutto sterili le nostre rimostranze. Il rischio della lamentazione è infatti proprio quello di diventare fine a sé stessa: chi si lamenta spesso – senza rendersene conto – non ha (più) l’obiettivo di cambiare le cose, ma quello di continuare a lamentarsi e di mantenere in tal modo la sua posizione emozionale e relazionale di vittima.
 

Una strategia di relazione

Ma che cos’è il lamentarsi? Una prima informazione interessante la rintracciamo nell’etimologia della parola: il termine italiano “lamento” viene fatto derivare dal latino claméntum (stessa radice di “chiamare” o “clamore”) = grido, esternazione sonora di dolore e cordoglio.

 

Vediamo dunque che una prima caratteristica distintiva del lamentarsi è proprio quella “sonora”: essere cioè una manifestazione di contrarietà espressa in modo da richiamare l’attenzione altrui. La lamentela è fatta per non essere ignorata ma, anzi, per essere udita da tutti. Quando ci ritroviamo a lamentarci di qualcuno o qualcosa non ci rivolgiamo solo alla persona (o all’istituzione) che ha disatteso le nostre aspettative, anzi molto spesso non ci rivolgiamo affatto all’oggetto della lamentela, ma ci lamentiamo con altri di qualcuno/qualcosa. 

 

Questo ci pone in rilievo quanto la lamentela non sia un’emozionalità individuale, bensì relazionale: ogni volta che ci lamentiamo ci stiamo lamentando di qualcosa con qualcuno, stiamo cioè utilizzando la lamentazione come precisa strategia di relazione (a livello implicito o esplicito).
 

Dall’individuo al collettivo

Il valore relazionale  e sociale della lamentela è ben visibile sia quando essa viene agita sul piano della relazione duale/privata, che su quello della dimensione più collettiva

Pensiamo al cliché (non per questo infondato) dello studente universitario che appare sempre più demotivato e incapace nello studio di una materia e non fa che autocommiserarsilamentarsi con altri (familiari, amici) di quanto il professore sia ingiusto o esigente, di come il sistema universitario non gli fornisca gli strumenti adeguati, di quanto carenti o lacunosi possano essere i programmi didattici che non gli hanno fornito le basi per affrontare adesso lo studio dei quest’esame… 

 

Non stiamo dicendo che, nella realtà concreta del nostro studente, tutto ciò non possa anche essere vero. Ma che lamentarsi è la controparte del non fare nulla per cambiare la propria condizione: è probabile che qualunque consiglio proposto da amici o parenti venga rifiutato o minimizzato con sdegno dal nostro studente, che utilizzerà il suo ruolo di vittima come “rifugio” per addossare ad altri la responsabilità delle difficoltà che incontra lungo il suo percorso universitario.

 

La stessa cosa può accadere sul versante collettivo: al netto di tante ingiustizie e iniquità sociali, di tanta inefficienza amministrativa e burocratica o di miopia e clientelismo politico; una gran parte delle persone possono reagire come il nostro studente: trincerarsi nel lamento collettivo (che fornisce anche in senso di appartenenza ad un gruppo contro un nemico comune) alimentando la posizione emozionale di impotenza a fare alcun che. Dicevamo infatti che la lamentazione cerca continuamente dei  “sostenitori”
 

Uscire dall’impotenza

La lamentela rischia di “cronicizzarsi”, quando diventa l’atteggiamento stabile con cui una persona o un gruppo affronta un problema; diventa allora una trappola: invece che mezzo per cambiare le cose, diventa il “fine”. 

 

A furia di lamentarci, dunque, rischiamo di rintanarci sempre di più in questa posizione emozionale passiva, vittimistica e impotente. 
Lamentarsi implica non accettare le difficoltà della vita e mettersi a priori in una posizione emozionale di impotenza. Ma, potremmo un po’ provocatoriamente domandarci, perché mai ci dovrebbero essere risparmiate le contrarietà/ingiustizie della vita? 

 

Se colludiamo con questo non facciamo altro che avallare la nostra posizione di incompetenza: tutti gli ostacoli dovrebbero venirci risparmiati perché non possiamo sopportarli, non siamo in grado di affrontarli?… Eludere, con la lamentela, una nostra parte di responsabilità/capacità ad incidere sugli eventi rischia non solo di avallare il nostro senso di impotenza (come già detto), ma di farci perdere di vista cosa vogliamo: il lamento da mezzo diventa un fine.   

 

Come smettere di lamentarci e invertire la rotta? 
Prendendo anzitutto coscienza del fatto che si tratta di una posizione emozionale, non della realtà dei fatti (sentirci impotenti non significa che effettivamente lo siamo). 

 

Modificare questa posizione richiede la fatica di tollerare la mancanza, l'assenza, la perdita (di un’aspettativa, di un diritto, di uno stato di cose) senza poterla né delegare in toto ad altri (i “colpevoli” contro cui si scaglia il lamento) né rimpiazzare istantaneamente. È la fatica di saper sostare nell’assenza (di qualcuno/qualcosa), indispensabile in fondo per contattare il nostro desiderio e ricostruire una nostra progettualità. 

 

Lamentarci ci chiude in una posizione di immobilità, confrontarci con l’assenza di ciò che ci è negato ci muove ad una (nuova) prospettiva su noi stessi. 

 

Bibliografia
Carli, R., & Paniccia, R.M. (2003). Analisi della domanda. Bologna: Il Mulino.