Autocommiserazione e autoindulgenza

Autocommiserazione e autoindulgenza identificano spesso atteggiamenti poco funzionali alla risoluzione dei problemi. La sana benevolenza verso sé stessi, però, è un’altra cosa.

Autocommiserazione autoindulgenza

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Autocommiserazione e autoindulgenza sono, soprattutto nel senso comune, dei termini utilizzati per alludere ad un vittimismo disfunzionale tramite il quale la persona tende a deresponsabilizzarsi per l’andamento degli eventi rischiando di aggravare il proprio vissuto di impotenza e incompetenza

 

Una “sana” benevolenza o, come la dicono le tradizioni orientali, una vera compassione verso sé stessi sono ben altra cosa… 

 

Autocommiserazione e vittimismo

Autocommiserazione e autoindulgenza sono termini che identificano un insieme di atteggiamenti che alcune persone hanno (stabilmente o in determinate circostanze) nel parlare di sé e dei propri problemi. 

 

La chiave è quella per lo più di percepirsi e raccontarsi agli altri come vittime degli eventi, sottolineando la propria impotenza al riguardo e identificando cause per lo più “esterne” a sé. 

 

Questo atteggiamento, che potremmo assimilare a quello che più propriamente viene definito vittimismo patologico, solleva la persona da colpe e responsabilità, la vorrebbe porre al riparo da giudizi e ritorsioni e richiamare sostegno e comprensione da parte degli altri. Spesso però gli effetti sono ben diversi da quelli sperati e il rischio è di avallare il proprio senso di impotenza e allontanare gli altri invece di ottenere il loro supporto. Vediamo perché. 

 

Autocommiserazione e individualismo

Chi si piange addosso è notoriamente mal tollerato specie nell’attuale società del “self man” dove, in onore all’individualismo più assoluto, ognuno è ritenuto – nel bene e ne male – unico artefice e responsabile del proprio destino. 

 

In questa chiave, che spesso è talmente accentuata da diventare una lente deformante con cui si guarda le realtà, può accadere che qualunque ammissione di difficoltà venga tacciata come autocommiserazione e cattiva autoindulgenza. Sarebbe bene invece distinguere fra una sana tolleranza verso i propri limiti (e quelli della realtà esterna che non possiamo in toto controllare e piegare a nostro volere) e una posizione realmente vittimistica e improduttiva che non giova alla risoluzione degli eventi. 

 

Tutti noi possiamo vivere un momento di shock, di sconforto e sentirci temporaneamente messi “ko” da una difficoltà grave o inaspettata. A tutti può accadere di aver bisogno di prendersi del tempo, rallentare dai consueti “ritmi” per poter trovare le risorse per uscire da un momento di difficoltà. 

 

Il problema è se questo stato di “fermo” tende a rimanere tale e l’autoindulgenza diventa un’autocommiserazione che non consente alla persona di attivare una reazione agli eventi. 

 

Non riuscire a farsi aiutare

Solitamente anche dietro il comportamento più improduttivo o disfunzionale c’è un desiderio/obiettivo di benessere che la persona, spesso inconsapevolmente, cerca di perseguire suo malgrado. 

 

Quello che un osservatore esterno vede è solo l’esito finale di una strategia di relazione che, in certi casi, finisce per procurare l’effetto opposto a quello desiderato con grande dolore di chi l’ha messa in atto e disappunto/disorientamento per coloro che le stanno intorno (Luborsky, 1984).

 

Chi mostra un atteggiamento di eccessiva autocommiserazione ha certamente oltrepassato al soglia della benevola autoindulgenza e propone sé stesso/a come vittima impotente degli eventi pretendendo implicitamente attenzione e sollecitudine dagli altri senza mostrarsi però mai intenzionato a seguire i loro consigli. Sì perché colui o colei che si pone come vittima pone inconsapevolmente gli altri in una posizione piuttosto “paradossale”: sono loro a diventare “colpevoli” o come diretti responsabili del problema o come soggetti incompetenti a risolverlo (dato che tutti i consigli cadranno nel vuoto poiché il ruolo in cui la vittima si pone le consente solo di continuare ad autocommiserarsi, non di risolvere il problema). Perché alcune persone, finiscono per ritrovarsi in questi tipo di empasse?
 

Autocommiserazione ed eventi che capitano

Gli eventi che capitano nella vita di ognuno non hanno un “peso” assoluto; i primi psicologi che provarono a stilare un’ingenua classifica degli eventi stressanti (Holmes e Rahe, 1967), si resero ben presto conto che un terremoto, una pandemia o un attacco terroristico possano risultare “oggettivamente” più gravi di un divorzio o la perdita del lavoro solo se li si valuta nel piano dei danni concreti, ma soggettivamente possono avere esiti differenti e anche molto per persone differenti. 

 

A parità di catastrofe, stress o calamità naturale due persone potranno reagire in modi molto diversi: una risultare gravemente traumatizzata e un’altra sviluppare capacità di adattamento più che resilienti. Come mai?

 

Un fattore, fra gli altri, più che decisivo risulta essere il grado di controllo e di padronanza (Rotter, 1954; White, 1959) che una persona può continuare a riconoscersi nell’affrontare un evento stressante, qualunque esso sia. Percepirsi impotenti rispetto a un pericolo di cui non si ha assolutamente alcun controllo è un fattore fortemente implicato ad esempio in tutte quelle reazioni ansiose di tipo post traumatico che possono presentarsi a mesi di distanza da evento.

 

Lo stesso tipo di elemento lo ritroviamo in coloro che abitualmente o occasionalmente reagiscono agli “urti” della vita con autocommiserazione e autoindulgenza: la loro prima reazione è la resa, la loro mente si ritira in automatico in una posizione di impotenza vittimistica esternalizzando in modo pressoché totale la responsabilità di quanto accade disconoscendo a sé stessi qualunque possibilità di potere e padronanza sull’evento. 

 

Questo stato mentale perseguirebbe in realtà un obiettivo: quello di proteggere la persona da ulteriori danni, esautorandola da qualunque colpe o giudizi svalutanti e sollecitando “altri”, dall’esterno, a correre in suo aiuto. Ma così facendo la mente si immobilizza in una posizione di impotenza che rende difficile se non impossibile ricevere l’aiuto e il sostegno che gli altri possono offrire. In questo senso la strategia del vittimista fallisce aggravando il vissuto di impotenza e il suo atteggiamento di autocommiserazione alimentando in un circolo vizioso senza fine…
 

Recuperare la capacità di scelta

Potremo dire che, paradossalmente, chi mostra autocommiserazione e un’improduttiva autoindulgenza sta semplicemente denunciando la propria difficoltà a recuperare un senso di autostima e padronanza su quanto gli accade.   

 

E il primo passo per “riguadagnare terreno” in tal senso è proprio quello di accettare e tollerare l’improduttività del proprio atteggiamento. A nessuno di noi piace riconoscersi un atteggiamento vittimistico, non siamo felici di ammettere che ci stiamo commiserando, ma questa è spesso la prima trappola da disinnescare per non sentirci vittime di noi stessi

 

Se ci riconosciamo un’eccessiva autocommiserazione la cosa più importante e non negare questo ma accoglierlo come uno dei possibili stati mentali (non l’unico) a nostra disposizione per affrontare un evento.

 

Sentirci vittime impotenti non è un dato di fatto, ma una posizione della mente dalla quale potremo gradualmente scegliere di spostarci solo dopo averla accolta e riconosciuta con quella che gli orientali definirebbero una sana compassione verso sé stessi: spesso il miglior modo per cambiare qualcosa è prima di tutto accettarlo. Vale anche per sé stessi…

Bibliografia
Holmes T.H. & Rahe R.H. (1967), The social readjustment rating scale, Journal of psychosomatic Research, 11: 213-218.
Luborsky L. (1984), Principi di psicoterapia psicoanalitica, trad. it. Boringhieri, Torino, 1989.
Rotter J.B. (1954), Social learning and clinical psychology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs.
White R.W. (1959), Motivation reconsidered: the concept of the competence, Psychological review, 66: 297-333.