Psicologia del vittimista

Il vittimista non va confuso con l’essere vittima. Il primo termine fa riferimento ad un preciso schema relazionale, il secondo all'aver ricevuto danno materiale o immateriale alla propria persona. Dunque ci si può sentire “vittime” anche se tale danno non lo si è ricevuto. Vediamo come.

Psicologia del vittimista

 

Il vittimista è una figura ricorrente negli schemi psicologici tanto che anche nel senso comune si utilizza spesso questa parola sebbene confondendola spesso con l’essere vittima.

 

Vittima e vittimista: le differenze

Un evento negativo o ingiusto può colpire una persona con maggiore o minor forza a seconda della sua capacità di resilienza, coloro che risultano più vulnerabili allo stress, che tendono più facilmente ad attribuire la cause di quello che capita all’esterno invece che a loro stessi, risulteranno probabilmente più passivi e quindi più sofferenti rispetto ad un danno ricevuto. 

Altri riusciranno invece a reagire con prontezza accogliendo la contrarietà come una nuova sfida. Immaginiamo una persona che perda ingiustamente il lavoro, può avere le risorse per rimboccarsi subito le maniche e cogliere magari la necessità incombente come opportunità per rischiare in un progetto del tutto autonomo. Un’altra invece potrebbe sentirsi schiacciata dall’evento e inizialmente incapace di reagire. Entrambe sono “vittime” di un evento che ha creato loro danno, ma il vissuto che ne ricavano è molto diverso.

La posizione psicologica del vittimista invece non ha bisogno di ricevere concretamente danno da un evento esterno (che può anche accadere e amplificare la portata del vissuto di inerzia e passività). La persona che vive seguendo questo “copione” tende suo malgrado ad interpretare qualunque cosa accada come un attacco personale, tende a sentirsi vittima degli eventi e delle persone a prescindere dalle reali difficoltà o dalle reali intenzioni di coloro che ha intorno. 

Spesso le persone che si ritrovano in questo stato della mente non riescono a fare a meno di lamentarsi fortemente della loro condizione, qualunque essa sia, senza tuttavia riuscire ad ottenere alcun conforto. Questo può essere logorante sia per il vittimista che per chi gli sta intorno.

 

Leggi anche Meccanismi di difesa >>

 

Il vittimista “non esiste”

Ogni vittima ha irrinunciabilmente bisogno di un “persecutore”, di identificare cioè qualcuno a cui addossare la colpa del proprio stato di sofferenza. Questo elemento ci fa ben comprendere come, in un certo senso, il vittimista “non esiste”: esistono invece relazioni fondate su una dinamica fra chi assume il ruolo della vittima (il vittimista) e chi viene identificato come colpevole delle proprie sventure (il persecutore).

Sono spesso relazioni affettive e familiari dove il vittimista manipola le persone a lui/lei vicino tramite il senso di colpa perché chiunque non si adegui alle sue richieste verrà ritenuto colpevole di recargli ulteriore sofferenza. Queste dinamiche, a cui non partecipa solo il vittimista ma anche in ugual misura la persona che asseconda il suo “copione”, sono molto diffuse nelle coppie così come nelle relazioni fra genitori e figli dove più o meno implicitamente può accadere di sentirsi in colpa all’idea di fare scelte che il vittimista non condivide o che porterebbero ad allontanarsi da lui/lei

Spesso dunque queste dinamiche sono ciò che tiene invischiati i membri di una famiglia (Minuchin, 1974) dove prevalga la necessità di esercitare un possesso/controllo nei confronti degli altri (figli, coniuge, fratelli ecc.) e dove non siano tollerate distanze o differenze (Carli & Paniccia 2002; 2003).

 

Il vittimista: un problema di fiducia

Sarebbe semplicistico e fuorviante, dunque, additare il vittimista come “colpevole”: entrambe le parti partecipano, spesso senza rendersene completamente conto, a questo “copione”; entrambe le parti – il vittimista e colui che accetta il ruolo designato di “persecutore” – colludono implicitamente sull’assunto che separarsi, non essere in accordo con tutte le richieste/aspettative dell’altro, sia nocivo alla relazione e metta in pericolo il legame affettivo perché si teme di perdere l’affetto di una persona cara nel momento in cui si perda il controllo su di essa.

È un problema di fiducia non tanto nell’altro (come a prima vista si potrebbe pensare), ma in se stessi, nel potersi sentire tranquilli di essere degni di amore e affetto per quello che realmente si è e non per quello che si dovrebbe essere.

Bibliografia
Carli R. & Paniccia R.M. (2002). L’Analisi Emozionale del Testo, Uno strumento psicologico per leggere testi e discorsi. Milano: Franco Angeli.
Carli R. & Paniccia R.M. (2003). Analisi della domanda. Bologna: Il Mulino.
S. Minuchin (1974). Famiglie e terapia della famiglia, Astrolabio Ubaldini.

 

Leggi anche La negazione e i suoi meccanismi >>

 

Foto: auremar / 123rf.com