Farsi un pianto può aiutare a stare meglio?

Il pianto è spesso ritenuto segno di instabilità emotiva o di poca forza d’animo. Esiste però anche la credenza opposta secondo la quale piangere sarebbe “catartico” e quindi benefico ad ogni costo. Scopriamo se e come il pianto è veramente un modo per sentirsi meglio.

Farsi un pianto può aiutare a stare meglio?

L’uomo che non deve chiedere (e quindi piangere) mai.

La donna facile al pianto e quindi “isterica”, emotivamente instabile, lunatica… Molti sono i luoghi comuni e i pregiudizi associati al pianto; in entrambi i generi esprimere con le lacrime sentimenti di tristezza o disperazione sembra venir visto con un certo sospetto.

Niente di più falso, come lo stesso Freud (1895) ebbe a dimostrare. Tuttavia ciò non vuol dire che piangere sia un vantaggio a ogni costo o che l’effetto “catartico” delle lacrime basti in sé stesso a farci sentire meglio. Cerchiamo allora di fare un po’ di chiarezza su stereotipi, falsi miti e reali benefici del pianto!


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Pianto e benessere psicofisico

Il pianto, che sia di gioia o di dolore, sembra poter avere anzitutto degli effetti benefici agendo tramite meccanismi fisiologici.

Le lacrime sono un potente antibatterico naturale e stimolano il rilascio di endorfine a livello cerebrale, sostanze che agiscono come antidolorifici naturali. Il pianto quindi può aiutare il corpo ad essere più resistente allo stress.

Accanto a questo effetto biologico, il pianto, come scoprì lo stesso Freud e confermarono altri Autori dopo di lui, permette di allentare la tensione emotiva, esprimendo le emozioni e ripristinando un miglior equilibrio psicofisico.

Mentre, al contrario, è noto come la repressione e l’inibizione della tristezza e di altri stati d’animo sia associata a stati di malessere psicologico fin anche a importanti somatizzazioni a livello corporeo. Ma allora piangere, sfogare le emozioni è la strategia vincente?

 

Pianto e benessere: due parole sulla catarsi

La catarsi, termine derivato dalla filosofia e dal teatro greco, entrò a far parte del linguaggio psicologico con i primi studi di Freud e Bleuer sul fenomeno dell’isteria. All’epoca, infatti, si osservavano frequentemente tutta una serie di sintomatologie fisiche che, tuttavia, non potevano essere spiegate da nessun meccanismo patologico a carico della fisiologia del corpo.

Ne è un famoso esempio la paralisi “a guanto” che coinvolge le sole dita della mano senza interessare il resto del braccio (cosa impossibile nei casi di danno nervoso o muscolare). Freud e Bleuer (Studi sull’isteria, 1985), pionieri di scoperte che avrebbero segnato la storia della moderna psicologia dinamica, scoprirono che tali fenomeni erano causati da meccanismi di tipo psicologico, non somatico.

In particolare, essi osservarono che queste pazienti, se sotto ipnosi riuscivano a rivivere emozioni traumatiche fino ad allora represse, sperimentavano la scomparsa di tale sintomatologia.

Da allora il termine catarsi venne utilizzato per indicare tutti quei casi in cui la presa di coscienza e l’espressione di emozioni prima represse, compreso perché no il pianto, porta ad un miglioramento del benessere psicologico.

 

Pianto benessere e elaborazione

Attenzione però a facili generalizzazioni. Freud stesso si rese conto, proseguendo nei suoi studi, che la psicologia umana è molto più complessa e che l’espressione emotiva, lo sfogo delle emozioni fine a sé stesso, non può ritenersi sufficiente alla “guarigione”.

Ed in effetti l’anima del metodo psicoanalitico da egli inventato, differenziandosi molto dall’originario metodo ipnotico, prevede che il paziente, affinché trovi utile e benefico avere accesso all’esperienza emozionale, debba prendere consapevolezza dei propri stati emotivi e dei significati ad essi associati al fine di poter accedere ad un cambiamento.

Diversamente, la “catarsi” fine a sé stessa, lo sfogo emotivo tout court, potrebbe essere non solo ininfluente ma anche dannoso. Ne sanno qualcosa tutte quelle correnti psicocorporee, psicodrammatiche o bioenergetiche: anche in questi casi il lavoro terapeutico non si ferma alla catarsi, ma prevede una successiva fase di elaborazione delle emozioni sperimentate affinché l’esperienza sia davvero terapeutica. Diversamente sarebbe solo traumatica.

 

Sentirsi meglio dopo aver pianto

Il pianto non è quindi in sé stesso indice di benessere psicologico. Se è vero che reprimere il pianto e le emozioni ad esso associate è dannoso lo è altrettanto anche lasciarsi sovrastare dal pianto e dalla disperazione.

In entrambi i casi non si è in grado di gestire le emozioni e questo rivela una difficoltà di regolazione emozionale che può portare, sia in”eccesso” che in “difetto”, a disagi psicologici di vario tipo.

Perché l’espressione emotiva sia fonte di benessere occorre saperla gestire, saper riflettere su ciò che si sta provando per poterlo elaborare. Sono questi i casi in cui si potrà dire di sentirsi effettivamente meglio dopo aver pianto!

 

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