Perché le videochat ci stanno logorando

Strumento insostituibile per far fronte alle necessità di distanziamento sociale, le videochat impongono differenze rispetto alle interazioni dal vivo e possono risultare piuttosto faticose.

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©Aleksandr Davydov / 123rf.com

“Soli insieme”, così la psicoanalista Sherry Turkle aveva definito in tempi non sospetti il rischio di alienazione relazionale prodotto dalle interazioni robotiche e videochat

 

L’attuale emergenza sanitaria ha reso necessarie severe limitazioni ai contatti interpersonali in presenza; in questo contesto le nuove tecnologie, le videochat e tutti i sistemi di videochiamata hanno reso possibile superare le distanze e mantenere le connessioni fra le persone. Ma a che prezzo? 

 

Davvero parlarsi davanti a un monitor è più “economico” che incontrarsi di persona? All’apparente semplificazione sul piano concreto sembra corrispondere una maggior fatica per la mente, soprattutto se queste tecnologie si utilizzano in modo “massivo”. Vediamo perché. 

 

La fatica di incontrarsi senza spostarsi

La psicologa Doreen Dodgen-Magee, che già aveva illustrato luci e ombre delle comunicazioni digitali in un libro del 2018, torna a parlare dell’argomento in occasione della quarantena e delle misure di distanziamento sociale che, nell’emergenza da nuovo coronavirus, hanno portato più in auge che mai l’utilizzo di videochat, videochiamate, meeting da remoto, webinar e similari. 

 

È indiscutibile che queste opportunità, garantite da internet e device di ultima generazione, stiano rappresentando un’insostituibile via di “salvezza” da un prolungato isolamento. Eppure nulla è senza macchia, le videochat, se da un lato ci semplificano la vita consentendoci di connetterci istantaneamente con amici, parenti e colleghi di lavoro rimanendo comodamente sul divano di casa, dall’altro richiedono una fatica psicologica non indifferente e alla lunga forse superiore a quella delle interazioni in presenza. 

 

Tutto dipende, certo, da come queste tecnologie vengono utilizzate. Vediamo allora quali peculiari differenze le contraddistinguono rispetto agli incontri “dal vivo”. 

 

Videochat e assenza di sensorialità

Dodgen-Magee sottolinea un aspetto apparentemente banale che troppo spesso tuttavia viene sottovalutato: ogni interazione vis à vis si avvale non soltanto della comunicazione verbale, ma anche di tutto un insieme di elementi sensoriali che riguardano sia la corporeità degli interlocutori, che l’ambiente in cui l’incontro si sta svolgendo. 

 

La comunicazione mediata da uno schermo esclude, in primo luogo, tutta una serie di messaggi non verbali che ordinariamente le persone inviano – più o meno consapevolmente – mediante i gesti e la postura del corpo.

 

Quando parliamo in videochat siamo costretti nella maggior parte dei casi ad accontentarci del solo primo piano dei volti.

 

In secondo luogo, viene a mancare la sensorialità: ci sono una serie si suoni, rumori, odori e colori che solitamente contribuiscono a creare il contesto condiviso della comunicazione.

 

La mancanza di tutti questi elementi rischia di limitare la comunicazione in videochat al solo piano verbale riducendo di molto l’impatto di tutte quelle componenti che solitamente contribuiscono a definire il “clima” dello scambio interattivo e la nostra partecipazione a esso.
 

Videochat e distanze interpersonali

Le differenze non finiscono qui. Stefano Paolillo, psicologo che si occupa da tempo di studiare gli impatti psicologici delle tecnologie audiovisive, sottolinea l’importanza/critcità della prossemica nelle comunicazioni da remoto. 

 

Tutti noi solitamente calibriamo le distanze interpersonali a seconda del livello di intimità o formalità delle relazioni. Esiste una ben definita “distanza intima”, una “bolla prossemica”, che tendiamo a regolare in maniera del tutto automatica e inconsapevole: una distanza “ravvicinata” in cui facciamo entrare solo le persone con cui abbiamo relazioni di forte intimità e confidenzialità. Ogni irruzione di altri in questa “bolla” verrà percepita come un’indebita invasione di campo e susciterà molto probabilmente delle sensazioni di disagio

 

Tutto questo vale anche per le comunicazioni mediate da video ma con delle complicazioni in più: spesso l’inesperienza col mezzo o la mancanza di tecnologie professionali (come è per la stragrande maggioranza delle persone) portano a confrontarsi con improbabili primi piani, dove il volto dell’altro risulta molto più “ravvicinato” di quanto non avverrebbe nelle ordinarie interazioni vis à vis. 

 

Al contrario, anche un’immagine eccessivamente distante, come la figura intera, può risultare inadeguata a seconda del tipo di comunicazione. Possono sembrare dettagli prettamente tecnici da lasciare a chi si occupa di televisione, ma non è così: interagire online, in videochat o videochiamate, implica ricalibrare le distanze interpersonali e adeguare, al meglio possibile, il mezzo e l’inquadratura al tipo di relazione che stiamo intrattenendo. Diversamente l’interazione rischia di risultate invadente, disagevole e psicologicamente molto faticosa per entrambe le parti.
 

Costretti nell’inquadratura

Un altro aspetto, sottolinea Paolillo, è piuttosto rilevante: nelle videochiamate non siamo liberi di distogliere lo sguardo dall’interlocutore per divagare per la stanza, perché l’ambiente dove egli si trova ci è in gran parte precluso, fatta accezione per alcuni pochi “indizi” (e a volte neanche quelli nei casi in cui l’altro debba sfocare lo sfondo o sostituirlo con un’immagine neutra). 

 

Che dire poi di tutte quelle occasioni informali in cui si improvvisano cene e aperitivi “virtuali” in cui ai partecipanti può accadere di dover uscire dall’inquadratura per muoversi nell’ambiente circostante lasciandoci soli in compagnia della loro tavola apparecchiata? 

 

Tutto questo crea un effetto “imbuto” che costringe a tenere fisso lo sguardo sui pochi centimetri quadrati dello schermo (chi utilizza lo smartphone invece di un grande pc noterà senz’altro la differenza) inducendoci a mantenere un’attenzione focalizzata perennemente sul volto del nostro interlocutore (volgere lo sguardo altrove implica ritrovarsi nel proprio spazio in cui l’altro non è più presente). 

 

Inoltre, come se non bastasse, nelle interazioni video ci confrontiamo con un elemento dissonante piuttosto curioso: mentre parliamo non vediamo solo il volto dell’altra persona, ma abbiamo accesso anche all’inquadratura di noi stessi e questo rischia di diventare un elemento distraente, di polarizzare la nostra attenzione più sull’immagine che stiamo proponendo all’altro che su quello di cui stiamo parlando. 

 

A volte è un elemento di disturbo piuttosto evidente (alcuni scelgono appositamente di nascondere in qualche modo questa fastidiosa informazione di ritorno), altre volte è una sorta di interferenza di fondo cui non facciamo neanche caso ma che distoglie, in modo subliminale, parte delle nostre energie cognitive ed emotive.
 

Le videochat annullano i confini?

Ultimo, ma non per importanza, l’aspetto dell’istantaneità garantito da videochat e simili in un contesto, quale quello attuale, dove le persone passano la maggior parte del proprio tempo a casa

 

 

Questo può alimentare, sia nei rapporti personali che di lavoro, l’aspettativa/pretesa che l’altro debba essere sempre “disponibile”, che non ci siano più confini fra la sfera individuale e quella sociale, fra l’ambito lavorativo e quello privato.   

 

Le richieste di videochiamata possono arrivare in qualunque momento della giornata, senza la necessità di dover contrattare con l’altro – come avviene per gli incontri in presenza – un tempo e un luogo per incontrarsi.

 

 

Per alcuni può essere facile gestire questi confini anche da remoto; per altri può risultare più complicato e alimentare rabbia, frustrazione e sensi di colpa; altri ancora potrebbero ritrovarsi in un flusso continuo di call, videochiamate e videochat per l’ansia di voler saturare a ogni costo qualunque dimensione “vuoto”

 

Mostrare o raccontare

Nell’attuale cultura (o sarebbe meglio dire “culto”) dell’immagine, sembra diventato indispensabile poter vedere ed essere visti sempre e in qualunque circostanza. 

 

Prima si utilizzavano i social network per testimoniare momenti della propria vita che bisognava condividere virtualmente ed esporre agli occhi dei più per sentire sufficientemente “reali”

 

Oggi su questi stessi canali si iniziano sempre più spesso a postare immagini non più della realtà vissuta nella sua concretezza sensoriale, ma delle interazioni avvenute in virtuale: gli screenshot delle schermate di queste piattaforme che riproducono i volti di ogni partecipante stanno diventando la nuova “normalità”. 

 

Eppure questo rifuggire a ogni costo e con ogni mezzo l’assenza (del volto dell’altro, della frenesia del quotidiano, dei luoghi di svago ecc.) rischia di renderci schiavi del mezzo digitale, di abusarne nostro malgrado, impedendoci di confrontarci nella nostra mente con la “mancanza” che, seppur gravosa, è ciò che alimenta il desiderio, la fantasia, la creatività

 

Il video, l’immagine possono darci un surrogato immediato di ciò che manca; mezzi di comunicazione apparentemente più “desueti” (si pensi solo alla più classica telefonata) ci costringono a sopperire con un racconto e, non di rado, nel far questo a riflettere sulla nostra esperienza:
Le avventure accadono a chi le sa raccontare.” (Jerome S. Bruner).