L'empatia richiede troppa fatica?

L’empatia è considerata una capacità evolutiva e adattiva fondamentale per gli esseri umani. Eppure spesso le persone rinunciano a utilizzarla a favore di modalità più semplici di interazione con la realtà che richiedono un minore sforzo cognitivo. Perché accade questo?

L'empatia richiede troppa fatica?

Quando viene data loro una scelta, le persone evitano di utilizzare l’empatia? E perché accade questo? Stando a una ricerca pubblicata sul Journal of Experimental Psychology: General, esercitare le proprie capacità empatiche richiederebbe una certa fatica cognitiva; per questo le persone opterebbero per strategie più semplici e mentalmente “disimpegnate”.

 

La fatica di immedesimarsi

Lo studio in questione, teso a valutare se e quanto le persone desiderassero entrare in empatia con gli altri, ha posto ai partecipanti un esercizio piuttosto semplice. Ognuno di loro doveva scegliere fra due mazzi di carte che ritraevano alcuni soggetti: uno dove era chiesto solo di descrivere i personaggi raffigurati e un altro dove invece era richiesto di esercitare le proprie capacità empatiche provando a immedesimarsi nei soggetti ritratti.

Nonostante le situazioni con le quali i partecipanti potevano essere chiamati ad empatizzare non fossero solo negative o tristi, la maggior parte di loro ha scelto il compito più facile optando per il semplice esercizio “descrittivo”. Solo in una fase successiva, coloro a cui era stato intenzionalmente fatto credere di avere capacità empatiche particolarmente spiccate, hanno ripetuto l’esperimento scegliendo con più frequenza il secondo mazzo di carte.

 

Perché questi risultati?

Sembra che le persone possano percepire l’empatia come una soluzione più faticosa e meno efficace. In altre parole: sembra che ritengano che mettersi nei panni degli altri sia non solo difficoltoso ma anche di dubbia efficacia dubitando, evidentemente, della propria capacità di riuscire a farlo efficacemente.

Un vero e proprio paradosso, questo, se pensiamo che l’empatia è una capacità tipicamente umana, sviluppata fin dall’infanzia e coordinata da un sistema neuronale specifico e attualmente ben studiato e documentato (i neuroni specchio). In altre parole: siamo naturalmente predisposti, a livello cerebrale, a metterci nei panni degli altri e questo ha rappresentato da sempre un vantaggio evolutivo per la nostra specie.

Come mai allora in certe condizioni arriviamo ad adottare una tale pigrizia mentale da rinunciare a una della facoltà che più ci rende “umani”? Davvero non ne vale la pena?

 

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La paura di non capire o di non sentire

Due, in particolare, risultavano essere le preoccupazioni centrali dei partecipanti riguardo le proprie capacità empatiche. La prima era la paura di non identificare correttamente l’emozione provata dall’altra persona; la preoccupazione di commettere errori “qualitativi” rendeva dunque le persone più preoccupate e questo aumentava il loro sforzo cognitivo durante compiti di empatia.

La seconda preoccupazione era sostanzialmente di tipo “quantitativo” relativa cioè al timore di non provare emozioni sufficienti in risposta allo stato d’animo altrui; in altre parole la paura di “non sentire nulla”, di reagire con indifferenza emozionale ai volti che venivano loro presentati.

Queste due tipologie di difficoltà contribuivano a far percepire ai soggetti l’esercizio empatico uno sforzo oneroso e inefficace e per questa ragione, concludono i ricercatori, molto di loro optavano per compiti più semplici.

 

Empatia, intelligenza emotiva e mentalizzazione

Diversi possono essere i fattori che contribuiscono a una deficitaria capacità empatica o a una rinuncia ad essa.

Per potersi sintonizzare con gli stati emotivi altrui, riconoscerli e identificarsi con essi, è necessario che si abbia una sufficiente competenza emotiva a riconoscere e gestire le emozioni anzitutto in sé stessi. Non è solo questione di intelligenza emotiva, ma di una più generale capacità di regolazione affettiva che coinvolge complesse capacità di mentalizzazione: la capacità, cioè, di possedere una “teoria della mente”, di spiegarci i comportamenti degli altri sulla base dei loro stati interni (affetti, cognizioni, intenzioni e motivazioni).

Avere empatia e un livello di mentalizzazione adeguati dipende naturalmente dalla propria storia evolutiva, dai contesti di vita, eventi ambientali e familiari ecc.  Infatti diversi disturbi di personalità di livello più grave sono contraddistinti da un deficit nella capacità empatiche e di mentalizzazione.

 

Empatia, stereotipi e fake news nell’era dei social

Ma non basta: l’empatia non è qualcosa che si “possiede” o che si raggiunge una volta per tutte: occorre utilizzarla, esercitarla con costanza perché molte possono essere le situazioni – individuali o di gruppo – in cui si cede a ragionamenti per stereotipi e semplificazioni che possono portarci a “oggettivare” l’altro e a disconoscerlo nelle sue qualità umane. Per provare empatia è indispensabile essere nelle condizioni di riconoscere nell’altro la propria stessa umanità.

Davanti alle false notizie, alle dimostrazioni di intolleranza e discriminazione, alla riduttività dei social network con cui ci confrontiamo quotidianamente ci ritroviamo più e più volte a dover scegliere ogni giorno fra quei due mazzi di carte: accettare come un mero dato di fatto quella che ci viene proposta come facile “verità”; oppure pensare e provare a immedesimarci, interrogarci scegliendo, quindi, la via più faticosa e meno scontata.

E, se mai servisse ricordarlo, questo non avviene in un laboratorio di ricerca ma nella complessità e nelle contraddizioni della real life.

Restare umani, dunque, non è così semplice e scontato come si vorrebbe…

 

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Foto: Zvonimir Atletic / 123rf.com