Noi non siamo il nostro lavoro

Festa dei lavoratori? Paradossale di questi tempi, dove il lavoro o non c’è, o si perde, o non soddisfa. La tensione economica e sociale è palpabile e un diritto fondamentale come quello del lavoro in Italia non è garantito. Quale sconfitta peggiore per uno stato? E quale sconfitta si riflette a livello personale in ogni cittadino? Perché il lavoro nella vita ci identifica, ci dà un ruolo fisico e sociale, contribuisce alla nostra realizzazione personale, ma se non possiamo viverlo serenamente, se noi non siamo il nostro lavoro, vediamo come ne risente il nostro senso di identità

Noi non siamo il nostro lavoro

Il rapporto tra lavoro e identità personale è d’importanza radicale. Molti studiosi e ricercatori hanno analizzato tale legame, tra questi Charon afferma che “l’identità fa riferimento a chi l’individuo pensa di essere e che annuncia al mondo in parole e azioni”. Definirsi in base alla propria funzione vuol dire in qualche modo affermare che noi siamo il nostro lavoro. Ecco perché il lavoro stesso influenza l’individuo e lo sviluppo della sua personalità ed è l’elemento essenziale per costituire la propria identità individuale. Basta pensare al nostro parlare quotidiano, quando conosciamo persone nuove tra le prime informazioni affermiamo “chi siamo” nei termini di “cosa facciamo” nella vita. Questo indica proprio come l’attività lavorativa svolta da ciascuno sia un potente indicatore di molte qualità personali e sociali per gli altri, ma soprattutto per noi stessi. E se una persona non ha lavoro? Se non ha una funzione che lo identifica? I ruoli formano la consapevolezza di ciò che siamo, dunque è inevitabile una crisi sul piano personale.

La funzione psicologica del lavoro è connessa ad importanti variabili personali: autostima, motivazione, soddisfazione, dignità. La sfera professionale rappresenta una realtà complessa in cui gli aspetti economici si legano a valenze sociali ed individuali. Affermava Dostoevskij: “Se vuoi trasformare un uomo in una nullità, non devi fare altro che ritenere inutile il suo lavoro”. Ed è proprio il senso di inutilità legato alla condizione di disoccupato, o di precario, che alimenta il senso di non realizzazione di sé, che sgretola col tempo lo sviluppo di una parte di noi stessi ricca di risorse. La persona a cui va stretta la propria identità prova spesso sentimenti di depressione, infelicità. L’importanza del lavoro va considerata su due fronti: come mezzo per sostenersi e sopravvivere, come mezzo per definirsi, per diventare autenticamente se stessi.

 

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Essere il nostro lavoro per essere felici

Non è dunque una forma di felicità poter amare il proprio lavoro? Lo stato dovrebbe mettere nella condizione di trasformare una propria passione, un proprio interesse, una propria competenza in un lavoro; quando questo non è possibile si dovrebbe cercare almeno di valorizzare la risorsa umana all’interno di un contesto in modo da farle utilizzare o scoprire i propri talenti. Se diamo valore ad una persona, la persona darà valore al suo lavoro e il lavoro valorizzerà lei: si innescherà quel circolo per cui un sentimento di realizzazione di andrà a spingere su un sentimento di realizzazione del paese.

Roberto Benigni nel suo intervento televisivo sulla Costituzione italiana ha definito perfettamente il legame tra lavoro, identità e felicità affermando: “Con la disoccupazione le persone non perdono solo il lavoro, perdono se stesse, non sanno più chi sono; e stanno male, e producono infelicità, e fanno stare male gli altri e perdiamo tutti. Quando non c’è lavoro perdiamo tutti. Perché quando noi lavoriamo non è che modifichiamo solo l’oggetto al quale stiamo lavorando, modifichiamo noi stessi, diamo una forma alla nostra vita. Quella è la grandezza del lavoro. Quando ci danno la busta paga, dentro la busta paga non troviamo solo i soldi, troviamo un’altra ricompensa: noi stessi. Quella paga non è avere. È essere.”

 

Immagine | Erich_Fromm