Psicologia del nichilismo

Perdita dei valori e dei riferimenti sociali, assenza di prospettive, senso di vuoto interiore: le espressioni del nichilismo vanno dalla filosofia, alle scienze sociali, al disagio psicopatologico individuale. Attenzione a non cedere ad una visione falsamente “romantica”: ognuno è tenuto a confrontarsi con il proprio dolore psichico e, attraverso di esso, costruire una propria ricerca di senso.

nichilismo

Credit foto
©bowie15 / 123rf.com

Friedrich Nietzsche diceva che “Dio è morto”. Si potrebbe dare una definizione di nichilismo, in tale ottica, intendendo con essa il crollo moderno dei valori religiosi e metafisici, il venir meno di sovrastrutture menzognere che hanno condizionato gli esseri umani fin dai tempi antichi.

 

Questo disvelamento dell’assenza di significati, valori e giudizi preordinati potrebbe essere, secondo Nietzsche, causa di disgregazione e perdita di senso dell’esistenza individuale (nichilismo passivo) o, al contrario, motore per la lotta, la protesta e la ricerca creativa di nuovi e più autentici significati dell’esistenza. Un concetto questo che è stato ripreso e sviluppato nelle scienze antropologiche e sociali e in psicologia: la società postmoderna, il disagio giovanile e la condizione psicologica di sofferenza possono essere pensati anche dall’ottica, attiva o passiva, del nichilismo. Vediamo perché.

 

Nichilismo e modernità liquida

Nelle varie declinazioni della modernità liquida esaminate da Zygmunt Bauman (2000), ve n’è una particolarmente pregnante per comprendere alcuni aspetti di quella società post moderna che ha ereditato la destrutturazione e la messa in discussione dei valori sociali, familiari e religiosi del passato così come delle istituzioni che li rappresentavano.

 

Una società che, all’indomani di tali cambiamenti, si ritrova senza valori collettivi alternativi, senza nuove dimensioni di sociali di senso e che dunque risulta facilmente in balìa degli individualismi dei singoli e dei condizionamenti dei mercati.

 

Buman parla, in tale contesto, di “paura liquida” (2006): una paura percepita ovunque a causa della precarietà e della costante incertezza su cui si poggia la vita dell’uomo postmoderno. Una vita priva di riferimenti, assoggettata alla responsabilità/dovere del singolo di costruire la propria sorte e i propri valori, di reinventarsi continuamente inseguendo la realizzazione individuale, recidendo e modificando appartenenze, legami, progetti non appena questi non si rivelino più immediatamente gratificanti e funzionali al successo

 

Sì perché all’uomo postmoderno è vietato fallire: la “liquidità” in cui si muove è il mezzo per eludere ogni possibile dimensione di perdita, sconfitta e limite sostituendo ogni possibile “crisi” con una condizione alternativa, nuova e trasformativa. Le relazioni non sono più qualcosa su cui investire, in cui impegnarsi con fatica e fiducia; ma sono esse stesse effimere e soggette a venir modificate e sostituite con un colpo di “click” o un messaggio appena non ci soddisfano più. 

 

Il lavoro, la famiglia, il luogo in cui abitare non rappresentano più dimensioni portanti del vivere, ma  transitori passaggi che l’uomo postmoderno deve essere continuamente pronto a mettersi alle spalle per la ricerca di un “nuovo” più gratificante successo… È anche all’interno di tale analisi sociologica che Bauman colloca il concetto di paura liquida come estrema incertezza del vivere che a quel vivere può costantemente far perdere di senso

 

La vita dell’uomo contemporaneo, sostiene l’Autore, rischia di diventare un continuo sforzo ad eludere tale incertezza, evitare la paura del non senso piuttosto che confrontarsi con esso e costruire nuove dimensioni di significato, nuove appartenenze identitarie e collettive. Bauman, pur senza utilizzare questo termine, ci mette in guardia dal nichilismo che pervade la nostra società e che il consumismo, il materialismo e l’individualismo contemporaneo così bene calcano per “vendere” rimedi contro l’apatia, distrazioni e sollievi temporanei a buon mercato.

 

Nichilismo e perdita

Sembra un paradosso ma non lo è. Nella società postmoderna, dove aleggia l’angoscia del nichilismo e della perdita di senso e di scopo, sembra impossibile parlare della morte, confrontarsi con la perdita, la rinuncia, il limite. Siamo la società che, più di ogni altra in passato, rifugge il confronto con la morte, la scinde dalla dimensione del vivere e si priva della possibilità di attraversare ed elaborare qualsiasi forma di lutto

 

Il rapporto che una società e i singoli hanno con la perdita non si evince soltanto dal modo in cui viene vissuto l’evento morte in senso stretto – evento peraltro sempre più spogliato dei rituali collettivi che dovrebbero accompagnarlo – ma anche, e forse più, dal modo in cui ci si rapporta alla dimensione della perdita e del limite nel vivere quotidiano. Non è molto diverso da quanto, dal suo punto di vista, sostiene Bauman, facciamo un esempio. 

 

In una relazione amorosa siamo destinati prima o poi a “perdere” quella dimensione idilliaca dell’innamoramento in cui la coppia è chiusa in sé stessa e l’altro appare perfetto e privo di difetti. Affinché possa costruirsi un sentimento di amore profondo è necessario che i due amanti si confrontino con la necessità di rinunciare all’idillio e riconoscano gli imprescindibili limiti che ad esso si impongono. I difetti dell’altro, la necessità per ognuno di tornare a coltivare anche aree della vita individuale fuori dalla coppia, le divergenze caratteriali, la presenza di familiari e amicizie reciproche che “entrano” nello spazio della coppia…

 

La vita, in altre parole, richiede, per poter essere vissuta insieme (per brevi o lunghi tratti), che le due soggettività possano incontrarsi sulle reciproche differenze, i reciproci limiti e difetti e trovare soluzioni creative e appaganti proprio a partire da tali differenze. Tutto questo richiede fatica, richiede di aprirsi all’altro rinunciando a qualcosa della propria individualità, del proprio egoistico appagamento, dei modi con cui abitualmente ci si difende dalle emozioni negative, della propria pretesa di onnipotenza. In alcuni casi questo impatto con la realtà, che rompe fisiologicamente l’idillio, è troppo deludente e mortificante da tollerare, si preferisce allora fuggire alla ricerca di nuove avventure destinate a rivelarsi ugualmente deludenti e “senza senso”

 

È l’incapacità stessa di affrontare la perdita – della pretesa di fusionale perfezione in tal caso – che può condannare alla perdita di significato e di scopo. Un nichilismo, se vogliamo rivisitarlo in chiave psicologica, che nasce dall’impossibilità di affrontare l’assenza e quindi di promuovere la maturazione, la crescita e il cambiamento.

 

È quanto avviene nell’elaborazione del lutto: finché questo processo non può essere iniziato e portato a termine si è sopraffatti dal vuoto e dall’assenza. Solo in fasi successive, quando la perdita viene metabolizzata e l’investimento emotivo sul defunto si è modificato, è possibile accedere al ricordo che, pur nella tristezza, dona conforto e anche stati d’animo positivi: il defunto è tornato presente, non nella sua materialità corporea, ma come rappresentazione nella nostra mente (Recalcati, 2016). 

 

Nichilismo e disagio psicologico

Perché è così difficile accettare ed elaborare la perdita nella società liquida e consumistica? Dicevamo che l'idea del nulla (Severino, 1972) si associa alla difficoltà per la società post moderna di confrontarsi con il limite, la morte e la perdita e parimenti con l'impossibilità di elaborarla e riorganizzare mentalmente il significato di ciò o di chi non è più: al suo posto rimane un vuoto incolmabile che può far scivolare nella depressione apatica o nell'agito maniacale che trova nella società dei consumi facili appigli (Recalcati).

 

Perché la società consumistica è nichilista? Perché in tale ottica ciò che scompare o ciò che non può essere visto, non esiste o cessa di esistere (Saverino, 1972). Basti pensare all'utilizzo dell'immagine e dei social network come strumenti per "esistere", prima agli occhi degli altri e solo dopo e secondariamente agli occhi di sé stessi. Ciò che scompare/non appare sembra non poter continuare ad esserci, perché non è (o non è più) sotto i nostri sensi. 

 

Questo iperinvestimento dell’immagine “esterna” associato a un progressivo indebolimento di un senso autonomo di identità è alla base di molte crisi adolescenziali odierne. Umberto Galimberti (2007) ha definito questa come l’età del nichilismo denunciando nell’assenza di prospettive future la radice della crisi non solo individuale, ma sociale e culturale dei giovani. 

 

L’adolescente di oggi si trova sempre più spesso a separarsi dall’idealizzazione infantile dei genitori più per delusione che per trasgressione riuscendo sempre meno nel compito evolutivo di investire in nuove direzioni di senso. La sua preoccupazione più frequente è quella di non essere sufficientemente attraente e popolare, all’altezza della società dell’immagine tecnologizzata in seno a cui è cresciuto (Lancini, Cirillo, Scodeggio & Zanella, 2020).

 

D’altra parte, una società che non investe sui giovani e sul dare a loro delle promesse per il futuro, sul valorizzare loro come depositari privilegiati della costruzione di tale futuro, è una società che rischia di risultare fallimentare non solo agli occhi dei singoli ma di sé stessa.

 

Anche la psicopatologia ha visto man mano avvicendarsi sempre più frequentemente problematiche connesse non tanto ad un conflitto fra libertà individuale e condizionamenti sociali (cosa che affliggeva in maniera prevalente le pazienti dell’epoca di Sigmund Freud); quanto manifestazioni connesse ad una sensazione di vuoto interiore, di assenza di valori e di scopi, di vulnerabilità narcisistica e fragilità identitaria. 

 

La perdita di senso è comune a molti stati di disagio psicologico: dalla depressione clinica, ai disturbi post traumatici, agli stati psicotici. Ma la si può indirettamente rintracciare anche negli assetti difensivi contro tale angoscia come le dipendenze, i disturbi del comportamento alimentare o alcun disturbi ossessivi fin anche nei pensieri/agiti suicidi.  

 

Nessun sintomo va mai preso alla lettera, nella sua esclusiva evidenza/concretezza: il dolore psichico è già in sé una protesta, una ricerca, una non rassegnazione alla perdita di senso; nel momento in cui la psiche sta denunciando di aver smarrito quel senso sta contemporaneamente cercando di sfuggire a tale devastante nichilismo. Il bisogno più autentico non è letteralmente quello di dissolversi nel nulla, ma di affrancarsi dal non senso per poter tornare ad “esserci” crescendo e rinnovandosi.

 

 

Bibliografia
Bauman Z. (2000). Modernità liquida, trd. it., Laterza, 2002.
Bauman Z. (2006). Paura liquida, trad. it., Laterza, 2006.
Glimberti U. (2007). L'ospite inquietante: il nichilismo e i giovani. Feltrinelli.
Lancini M., Cirillo L., Scodeggio T. & Zanella T. (2020). L’adolescente. Psicopatologia e psicoterapia evolutiva. Cortina.
Recalcati M. (2016). Incontrare l’assenza. Il trauma della perdita e la sua soggettivazione. Asmepa.
Severino E. (1972). Essenza del nichilismo. Adelphi.