“Darsi del tu”: trasformare un'esperienza soggettiva in una universale

Perché alle volte, per parlare di episodi che ci riguardano, usiamo il “tu” impersonale? Si tratta di un “espediente” grammaticale che sfruttiamo inconsapevolmente per distanziarci dall’esperienza soggettiva e renderla universale. Vediamo meglio perché.

“Darsi del tu”: trasformare un'esperienza soggettiva in una universale

Usiamo il “tu” impersonale per parlare di noi stessi quando alludiamo a principi o regole di comportamento che riguardano tutti o quando cerchiamo di trarre da qualche sventura una morale più ampia.

In questi casi ricorrere alla forma impersonale consente di distanziarci dalla soggettività delle esperienze rileggendole come esperienze universali. Vediamo perché.

 

Esperienze soggettive e esperienze universali

Il “tu” impersonale aiuterebbe a distaccarsi dagli eventi negativi e a trarne una sorta di “morale universale”. Queste le conclusioni a cui è giunto uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università del Michigan e pubblicato su Science. Lo studio ha coinvolto un campione di 2.489 volontari sottoposti a due fasi dell’indagine.

La prima era tesa a confermare se l’uso del “tu” impersonale fosse associato ad espressioni legate a norme di comportamento generali. Ipotesi che sembra confermata: i volontari tendevano a far ricorso a questa forma grammaticale più spesso quando descrivevano principi o regole universali sull’utilizzo di un oggetto (ad esempio “cosa fai con un martello?”) rispetto a quando parlavano delle proprie preferenze rispetto ad esso (“cosa ti piace fare con un martello?”).

L’uso della forma impersonale per parlare di sé stessi sarebbe dunque utilizzata in quei casi in cui si allude ad un esperienza o comportamento attuato in prima persona, soltanto per descrivere quei principi che lo rendono significativo e proceduralmente valido per chiunque.

In altre parole: facciamo ricorso al “tu” impersonale per rendere la nostra esperienza un “esempio” di quello che chiunque farebbe in una data circostanza; mentre ricorriamo alla prima persona se dobbiamo esprimere vissuti, opinioni o riflessioni soggettive.

 

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Esperienze negative come esperienze universali

In affinità con quanto emerso dalla prima fase, i ricercatori hanno trovato conferma di un altro utilizzo del “tu” impersonale per alludere a esperienze universali: distanziarsi dalle esperienze negative.

Quando i volontari sono stati invitati a pensare ad un’esperienza spiacevole e a descrivere la morale che potevano trarne, hanno fatto ricorso alla forma impersonale in misura significativamente maggiore rispetto a quando veniva loro chiesto di descrivere semplicemente la spiacevolezza di quanto accaduto o, ancor meno, quando riferivano di esperienze emotivamente neutre.

Anche in questi casi, secondo i ricercatori,  l’uso della forma impersonale sarebbe funzionale a “tradurre” un accadimento soggettivo in un’esperienza universale rendendo un esperienza spiacevole una fonte di insegnamento valida per tutti. In tal modo, ci si riconosce in una comune appartenenza sentendo le proprie sventure condivisibili con altri e smorzando l’impatto emotivo che queste hanno su di noi.

 

Esperienze universali o isolamento difensivo?

Ricorrere a forme grammaticali impersonali per parlare di sé è dunque uno stratagemma che utilizziamo in modo per lo più automatico per rielaborare cognitivamente le esperienze negative e attenuarne la portata emotiva.

Sentire che ciò che ci accade non ha solo un significato soggettivo, definito dalla nostra individualità, ma può rimandare a significati e vissuti anche più generali e condivisibili rende più accettabile un evento spiacevole perché lo rende comprensibile e decodificabile alla luce dell’esperienza che altre persone simili a noi hanno fatto o farebbero al posto nostro.

Attenzione però: quando la forma impersonale è una modalità a cui si fa ricorso ordinariamente per parlare di sé può rivelare un eccessivo distacco dalle proprie emozioni e dal coinvolgimento nelle relazioni. In questo caso, potrebbe non essere possibile trarre conforto da un senso di comunanza con gli altri, ma, al contrario, si rischierebbe di vivere una sorta di isolamento, di silenzio affettivo per difendersi dalla portata delle proprie emozioni.

 

 

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