Il falso sé: sono come tu mi vuoi

Un pesante senso di inutilità soggettiva, di non esistenza: questa una delle descrizioni con cui Winnicott spiega il falso sé, quando il senso di identità si fonda falsamente sull’accondiscendenza ai bisogni e desideri altrui invece che ai propri

Il falso sé

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Il termine falso sé, dello psicoanalista Donald Winnicott (Sviluppo affettivo e ambiente, 1965), indica una modalità patologica di sviluppo dell’identità che prende le mosse dai primissimi stati dello sviluppo infantile là dove il bambino non trova nella madre rispecchiamento dei suoi bisogni e desideri, ma cresce assecondando i bisogni e desideri di lei e imparando via via a fondare il proprio senso di identità nell’accondiscendere alle richieste altrui.

Se questo è l’unico modo sperimentato dal bambino per assicurarsi la vicinanza e l’affetto delle figure significative è perché queste ultime si trovano in evidente difficoltà psicologica e non riescono, loro malgrado, a fornire contenimento e convalida ai suoi stati emotivi.

La trappola è dietro l’angolo dato che, una volta adulti, si finisce letteralmente per non sapere più chi si è, incapaci di contattare desideri e bisogni autentici diventando così schiavi del giudizio sociale e dell’approvazione altrui e incapaci di accedere ad un’autentica dimensione di desiderio e di intimità relazionale.

 

Il falso sé nella personalità adulta

Il film Scene da un matrimonio (1973) di Ingmar Bergman racconta le vicende della crisi matrimoniale fra Marianne e Johan prigionieri di un rapporto inautentico dal quale tuttavia non saranno capaci di uscire.

L’incapacità di amarsi e di condividere un’intimità autentica, così come il non essere in grado, da parte di entrambi, di prendere altre strade e di scegliere per sé stessi, renderà loro impossibile uscire dalla gabbia matrimoniale che hanno costruito.

Il film ben si presta ad esprimere la fenomenologia del falso sé nel funzionamento della personalità adulta. Marianne dirà alla fine al marito e a sé stessa “la mia più grande paura è che io non abbia mai amato nessuno e che nessuno mi abbia mai amato” a testimonianza di quanto il mancato riconoscimento della propria soggettività da parte delle figure primarie possa compromettere lo sviluppo di un’identità autonoma e di un vero sé.

Un altro film che esemplifica magistralmente una personalità adulta fondata su un falso sé è Quel che resta del giorno (1993) tratto dall’omonimo romanzo di Katsuo Ishiguro il cui protagonista, Mr. Stevens, impersona l’esempio perfetto della “non-persona”: un maggiordomo che ha fatto del suo lavoro di servizio e devozione al Padrone una vera e propria fonte di identità personale.

Il falso sé di Stevens lo pone al perpetuo e zelante servizio di Darlington Hall senza lasciar mai prevalere passioni, emozioni o opinioni proprie; questo falso sé lo renderà volutamente cieco rispetto alle frequentazioni filonaziste che il suo padrone ospita nella sua casa, cieco al dolore della perdita del suo stesso padre e altrettanto cieco all’amore di Miss Kenton che sarà incapace di corrispondere.

Il falso sé di Mr. Stevens antepone una falsa maschera di servitore fedele a sentimenti e pensieri personali e autentici rendendolo un esecutore impersonale di ordini e volontà altrui.

 

Il ruolo e la maschera fra verità e falsità

 

Il falso sé e la psicoterapia

Sia da bambini che da adulti, le persone che fondano massicciamente il proprio senso di identità su un falso sé possono facilmente apparire ben adattati alla realtà circostante quando non addirittura eccellenti in qualcosa, come accade ai bambini prodigio descritti dalla psicoanalista Alice Miller (Il dramma del bambino dotato, Boringhieri, 1985). 

È questo forse uno dei drammi e delle insidie più grandi del falso sé: l’acquiescenza patologica, il conformismo coatto non creano problemi, non producono “sintomi” che destino preoccupazione o interesse negli altri, la persona vive con la sensazione di abitare una gabbia vuota senza saper esprimere il proprio malessere e senza che questo sia visibile agli altri.

L’accondiscendenza e la vulnerabilità ai giudizi e ai desideri altrui esprimono tratti di personalità che si ritrovano in tutti, anche nelle personalità che funzionano ad alto livello, ma rappresentano un problema patologico quando sono l’unico e rigido criterio su cui si fonda il senso di identità: nel falso sé propriamente descritto da Winnicott non c’è una semplice acquiescenza al volere altrui, ma ci si identifica con tale volere senza essere più in grado di contattare una dimensione autonoma, libera e autentica di volontà e di desiderio.

Autori come Donald Winnicott, Heinz Khout e Carl Rogers hanno contribuito allo sviluppo di nuove correnti di pensiero nella psicologia e nella psicoterapia dei disturbi dell’identità. I loro contributi e quelli di altri hanno aiutato i terapeuti a comprendere come la sofferenza di un paziente con un problema di identità, come il falso sé, non esprimesse un conflitto fra desideri o motivazioni contrastanti (come voleva la più tradizionale visione della prima psicoanalisi freudiana), bensì un “empasse” nello sviluppo del sé e dell’identità che necessitava di un ambiente relazionale empatico e rispecchiante – quale quello della relazione terapeutica - per completare un processo di crescita e maturazione psicoaffettiva.

Scrive Winnicott: “la psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta; la psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme (…) quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il paziente a uno stadio in cui ne è capace” (Gioco e realtà, 1971, p.72).

 

Come affrontare la paura del giudizio degli altri?


Per approfondire:

> L'identità, definizione in psicologia

 

Nel video, la scena del film Scene da un matrimonio