Non siamo in guerra, siamo in cura. L’altro lessico della pandemia

Guido Dotti della comunità monastica di Bose ci spiega perché sia pericoloso ricorrere a metafore belliche per rappresentare il male che ci sta affliggendo.

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Troppo comodo chiamarla guerra. Soprattutto per quanti di noi sono nati in Italia dalla seconda metà degli anni ’40 e per quanti di noi non si sono mai mossi per portare un po’ di pace là dove si combatte per davvero.

 

Ne sappiamo qualcosa di com’è fatta una guerra? Il “nemico invisibile”, i medici “in prima linea”, la “battaglia da vincere”, la vita “in trincea”: di cosa parliamo quando affrontiamo il tema dell’emergenza sanitaria e sociale causata dal coronavirus? Ci immaginiamo schierati più o meno all’avanscoperta di un fronte la cui collocazione è del tutto opinabile. 

 

Guido Dotti non si rassegna. Questa pandemia, per il monaco della Comunità monastica di Bose, non assomiglia proprio a una guerra. Guido Dotti ha voluto cercare una metafora più sincera, più vicina al sentire di coloro che quotidianamente si adoperano e si ingegnano perché dal covid-19 si possa guarire. Per questo lui preferisce parlare di “Cura”. 

 

Perché non siamo in guerra in questo momento, ma siamo in cura?

Ascoltando quanti sono implicati in prima persona, – chi lavora nel campo della professione medica, di assistenza religiosa, spirituale e psicologica – e anche per i miei anni trascorsi di obiettore, ho sviluppato una certa sensibilità, se non allergia, a un uso al di là del necessario delle metafore belliche

 

Non soltanto sono troppo scontate e inappropriate, ma offensive.  Il medico che cura i malati non pensa a sconfiggere il coronavirus, ma a salvare quelle vite, ad esempio. La società usa questa immagine per definire una realtà che le è sfuggita di mano. “Credevamo di poter restare sani in un mondo malato” ha detto il Papa ed ecco la cura è qualcosa di cui come essere umani dovremmo occuparci, sia da sani sia da malati nella vita abbiamo tutti qualcuno che si è occupato o si occupa di noi, i genitori si prendono cura, gli insegnanti, chi lavora nell’assistenza. 

 

Credo che se non abbiamo la consapevolezza che dobbiamo prenderci cura degli uni e degli altri e tutti insieme prenderci cura della nostra terra, della società, e del pianeta rischiamo un disastro. L’incuria provoca ogni genere di degenerazione

 

Di chi ci stiamo dimenticando?

Da un lato mi sembra venuta meno la cura del creato. In tutti i discorsi che sento sulla ripartenza è rarissimo sentire qualcuno che pensi ad altri modelli di sfruttamento/non sfruttamento della creazione. Trovo significativo che sia stata considerata attività essenziale produrre armi.

 

Stiamo lasciando indietro le istanze dei giovani dei Friday for future, ad esempio. Ma anche i marginali, i più fragili come le persone disabili che necessitano di assistenza a domicilio, le donne costrette a vivere dove subiscono violenze domestiche, i carcerati, chi la casa non ce l'ha, i lavoratori clandestini: se ne sente parlare ma senza soluzioni, sembrano quasi destinati a una sorta di selezione naturale e vengono lasciati indietro. 

 

Manca un discorso a monte: nelle emergenze si vede quale è il tessuto della normalità. In un tessuto che ha considerato queste persone marginali da gestire affinché non diano problemi, quando scatta l'emergenza non si ha il retroterra culturale per pensare a provvedere a costoro come agli altri. 

 

Dell'affollamento delle carceri se ne parla da tanto, siamo stati condannati dalla Corte europea dei diritti per questo ed è chiaro che in questa emergenza non cambieranno le cose dall'oggi al domani. 

 

Non siamo solo in cura allora, siamo in “crisi”.

Nelle crisi, anche etimologicamente, si è davanti a un bivio, a un punto di svolta: che strada vogliamo prendere? Quella che fa tesoro dei difetti e li vuole cambiare? Oppure, come chi dice ha da passare la nottata, quella dove si procede sempre allo stesso modo? La crisi tira fuori il meglio e il peggio di ciascuno di noi, è proprio questo a metterci, appunto, in crisi. 

 

Penso ai robot intelligenti, programmati per imparare dagli errori. Potrebbe valere anche per noi. Queste pandemie avvengono in tempi sempre più ravvicinati e sono sempre più virulente, eppure non abbiamo ancora imparato da ciò che abbiamo già visto.

 

Ancora, la “crisi” ambientale fa vacillare quelle magnifiche sorti progressive dell'umanità in cui il progresso non può essere illimitato in un mondo le cui risorse sono limitate.

 

Adesso ci ritroviamo in un mondo di decrescita infelice dove a risentirne sono ancora una volta i marginali. Gli anziani sono diventati i marginali invece di essere i ricchi di giorni, i ricchi di esperienza e di sapienza.

 

Quando smettono di produrre diventano un peso, li abbiamo considerati una merce di scambio e possiamo più facilmente sacrificarli ora, come sta accadendo proprio durante questa pandemia. 

 

Quali parole vorrebbe raccontassero questo difficile momento che stiamo vivendo?

Nella parola tenacia, ad esempio, ritroviamo temi cari alla guerra e alla cura. Si potrebbe partire da lì. La perseveranza richiama a una forza necessaria per superare il male, ma ci mette anche nella responsabilità di scegliere ciò che è veramente importante, e perseverare nell’averne cura.

 

Ultimamente sento poco parole come compassione, ascolto e pazienza nel
suo senso forte, quella pazienza che patisce e sopporta, e non intesa nel modo banalizzante che più spesso si incontra.

 

E poi, certamente, la solidarietà. Solidarietà è il plurale di cura. Non occorre un male comune per riconoscere cosa è il bene comune, occorre sentirsi comunità e questo è un esercizio quotidiano così, quando le nostre circostanze esterne cambiano, la sollecitudine verso il bene comune sarà inedita, ma naturale. 

 

E’ come riconoscere l’artista che amiamo anche di fronte a un suo brano inedito: abbiamo frequentato quella musica, quello stile e nella novità sapremo riconoscerlo. Così è lo sguardo di chi ha praticato la solidarietà, saprà come reagire per un bene comune anche nell’inaspettato. Ma per sapere fare questo, occorre attrezzarsi per tempo