Il mobbing sul lavoro

Si parla di mobbing sul lavoro quando si diventa vittime di azioni vessatorie perpetrate in modo continuo per un periodo superiore a sei mesi. Scopriamo quali sono le caratteristiche del mobbing e come difendersi

Il mobbing sul lavoro

Si definiscono come “mobbing” una serie di azioni vessatorie perpetrate nei confronti di un soggetto al fine di umiliarlo, svilirlo e di causarne l’allontanamento. Il mobbing può interessare diversi aspetti della vita sociale, ma l’ambito  in cui si esprime con maggiore frequenza è quello lavorativo. Il mobbing sul lavoro è finalizzato a provocare l’allontanamento volontario del lavoratore dall’azienda e viene usato, spesso, come alternativa al licenziamento per evitare di incorrere in azioni legali da parte del dipendente. Il mobbing può anche essere usato per favorire avanzamenti di carriera di amici e parenti, oppure come ritorsione nei confronti di lavoratori che non hanno voluto sottostare a ricatti di natura sessuale o di altro tipo.

 

Qualunque sia il motivo che spinge dei soggetti a vessare ed umiliare psicologicamente un lavoratore, resta il fatto che vengono commesse azioni riprovevoli che possono essere perseguite e punite. Il mobbing non è individuabile come una specifica azione rivolta contro un lavoratore, piuttosto come una serie di comportamenti vessatori e reiterati che perdurano per un periodo di tempo superiore a sei mesi. La dimostrazione in sede giudiziaria del mobbing sul lavoro potrà, dunque, avvenire solo esaminando nel loro complesso tutti i comportamenti vessatori compiuti dal datore di lavoro o dai colleghi all’interno del posto di lavoro.

 

Il mobbing sul lavoro: le caratteristiche

Di solito, quando un lavoratore viene fatto oggetto di mobbing da parte dei suoi superiori o colleghi, si dice che viene “mobbizzato”. L’azione diretta a compromettere l’efficienza lavorativa del lavoratore mobbizzato si può esplicare in diversi modi: con critiche violente ed esplicite in presenza di altre persone che sviliscono le capacità intellettuali del lavoratore;  con l’assegnazione di incarichi inutili, ripetitivi e dequalificanti non in linea con le competenze del lavoratore e con le mansioni contrattualmente definite; con trasferimenti ingiustificati presso altre sedi molto lontane da casa che rischiano di compromettere gli equilibri di vita del lavoratore; con la fornitura di strumenti di lavoro obsoleti che creano disagi nello svolgimento della prestazione lavorativa; con l’esclusione del lavoratore da informazioni aziendali molto importanti che lo fanno sentire emarginato o inadeguato; con l’assegnazione di incarichi troppo pesanti per le possibilità psicofisiche del lavoratore. Tutti questi atteggiamenti, nel tempo, possono provocare un forte stress che può dare origine a gravi sintomi psico-fisici in grado di costringere la vittima ad abbandonare il posto di lavoro.

 

Un’altra forma di mobbing, molto pericolosa e di recente diffusione, è quella che usa i contratti precari come strumento per ricattare ed umiliare il lavoratore. Si tratta di un mobbing che tende a colpire prevalentemente le donne che, spesso, non vengono fatte oggetto del rinnovo del contratto, come invece accade ai colleghi maschi, per espellerle dal ciclo produttivo in caso di maternità o in caso di rifiuto di ricatti di vario genere, spesso di tipo sessuale. Questo tipo di mobbing si può vincere dimostrando di aver subito una discriminazione di genere che viola le norme sulle Pari Opportunità o di aver subito molestie sessuali.

 

Il mobbing: le origini

Il mobbing può anche essere identificato come una condizione di persecuzione psicologica individuata per la prima volta alla fine degli anni 80 dallo psicologo svedese Heinz Leymann che lo vedeva come una forma di comunicazione contraria all’etica e molto ostile intrapresa da gruppi di persone contro un singolo per spingerlo progressivamente verso una posizione di isolamento. Secondo lo psicologo non rientrano nel mobbing i cambiamenti di mansione ed i trasferimenti in altra sede aziendale.

 

Il mobbing sul lavoro: i dati

Secondo i dati dell’Ispesl (l'Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro), le vittime del mobbing sul lavoro sarebbero un milione e mezzo. Il fenomeno sarebbe più diffuso nel Nord (65%) e le più colpite sarebbero le donne (52%). Nell’Unione Europea le vittime di mobbing sarebbero 12 milioni, cioè l’8% degli occupati. La classifica dei mobbizzati vede al primo posto l’Inghilterra (16,3%),  seguita da: Svezia (10,2%),  Francia  (9,9%), Irlanda  (9,4%) e Germania (7,3%). L’Italia con il 4% si trova al di sotto della media europea.

 

Il mobbing sul lavoro: la tutela giuridica

Chi ritiene di essere vittima di mobbing può rivolgersi ad un patronato o ad un’associazione sindacale per ricevere assistenza legale gratuita o agli sportelli mobbing istituiti presso le sedi territoriali delle principali associazioni di categoria. Il mobbizzato, in sede giudiziaria, può chiedere un risarcimento per danno patrimoniale o per danno biologico. Il danno patrimoniale è relativo a beni personali come la retribuzione, livello di carriera, professionalità; il danno biologico è relativo alle conseguenze sulla salute psicofisica del mobbizzato che devono essere accertate dal medico. La Corte di Cassazione nel 2008 ha abolito il danno esistenziale che rientra nel danno morale e biologico. Le leggi di riferimento per difendersi dal mobbing sul lavoro sono quelle che disciplinano il risarcimento del danno (Codice Civile e Penale) ed il diritto al lavoro (Costituzione).

 

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