La scuola del sorriso: quei lontani anni '30!

1937: la rivista Life e altre riportano la notizia di una “innovativa” scuola del sorriso di Budapest dove, per prevenire il suicidio, alle donne depresse veniva insegnato a sorridere. Una “fake news” d’epoca con un fondo di verità?

La scuola del sorriso: quei lontani anni '30!

Foto: Immagine comparsa su Life nel 1937 rappresentante una giovane alle prese con la terapia del Sorriso

 

“Ghiaccio bollente” … è un classico esempio di ossimoro, cioè una figura retorica fondata sull’accostamento paradossale di due termini in contrasto tra loro. Anche pretendere di “insegnare” a sorridere a chi non ne ha alcun motivo sarebbe una forma, ancor più grottesca, di paradosso.

La “scuola del sorriso” è una delle più “antiche” bufale messe in circolo dai canali di informazione, una notizia falsa dunque, che tuttavia non può non far riflettere.

 

Una scuola del sorriso per le casalinghe di Budapest

Budapest, anni ’30: si registra un'incidenza particolarmente elevata di disturbi depressivi nella popolazione, il tasso dei suicidi sarebbe in preoccupante aumento e da più parti ci si chiede: come arginare questa ondata di tristezza prima che diventi un’epidemia sociale? Semplice: creare un istituto dove insegnare a sorridere, soprattutto alle donne, che a quanto pare rappresentavano la fetta maggioritaria delle persone “depresse”.

L’innovativa terapia voleva che le melanconiche pazienti venissero ripetutamente esposte a immagini “sorridenti” di opere d’arte o personaggi celebri e/o applicassero sul volto delle apposite bende raffiguranti un espressione di sorriso.

Sarebbe in particolare una foto, di suddetti trattamenti, ad essere stata considerata fonte attendibile della notizia: divulgata inizialmente nel tabloid olandese Het Leven nel 1937 ha ben presto fatto “storia” come una delle fake news ante litteram più esilaranti del secolo scorso.

Nessun trattamento al sorriso di forza venne imposto alle melanconiche casalinghe ungheresi dunque: ci è concesso tirare un sospiro di sollievo…o forse no?

 

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La fake news della scuola del sorriso

La notizia, per quanto assurda, venne riportata su più di una rivista e, almeno per un certo periodo di tempo, accolta come vera. Certo, si dirà, non c’era internet e nessuno aveva la possibilità di verificare o anche solo mettere in dubbio la veridicità delle notizie riportate sui giornali.

C’è però da considerare anche un altro aspetto: che probabilmente la notizia venne accolta come tale perché, sotto certi aspetti, ritenuta verosimile in base ai canoni culturali dell’epoca.

La scienza, comprese le scienze psichiatriche, era ancora largamente fondata su un modello di stampo positivista e ortopedico finalizzato a ristabilire la salute della persona apportando opportune “correzioni” al suo comportamento: quanto tutto questo influisse sulle condizioni aberranti delle istituzioni manicomiali, ad esempio, è storia nota.

C’è poi un altro aspetto: quello dei rigidi stereotipi di genere che ancora regolavano espressamente i rapporti fra uomini e donne. Sorridere e rallegrare l’ambiente non rientrava forse fra i “compiti” previsti per una buona moglie? “Il riso dona forza e salute” recitava un noto slogan del 1951 mentre una radiosa e biondissima donna di casa faceva cadere del riso nella pentola…

 

Una scuola del sorriso digitale e globale?

Oggi, si dirà, i tempi sono cambiati! C’è da dire che in realtà la notizia della sedicente scuola del sorriso si ritrova facilmente in rete non sempre segnalata espressamente come falsa, a dimostrazione del fatto che il suo potere di “fake news” ante litteram non sembra affatto scomparso.

Siamo d’altronde ormai avvezzi a farci abbindolare da false notizie di ogni tipo, viviamo in un’epoca in cui spesso si apprendono le notizie prima dai social network e solo dopo dai quotidiani o dalle agenzie di stampa, spesso loro stesse abituate a riportare quanto accade nel mondo a partire da quanto accade sui social (dibattiti politici compresi).

Ma i tempi non sono del tutto cambiati neanche per il sessismo, oggi più subdolo ma pur sempre presente, imperante nei mezzi di informazione dove alla donna-moglie e madre si sostituisce la donna oggetto sessualizzata e assimilata a un prodotto di consumo.

Ma, più di tutto, stupisce pensare che siamo, in fondo, tutti parte di una società liquida fondata sulla gratificazione immediata, sulla mercificazione delle relazioni e sull’immagine.

Un’immagine che si vuole a tutti i costi ben più che sorridente: vincente, di successo, giovane, accattivante come solo il fotoritocco sa essere. Non siamo forse tutti confrontati con una scuola del sorriso digitale globalizzata che continua a proporci modelli e stereotipi monodimensionali in cui non c’è spazio per l’attesa, per il fallimento (quello che consente di imparare), per il confronto/accettazione dei limiti propri e altrui e, in ultimo, anche per la tristezza? Davvero, per essere felici, dobbiamo sorridere a ogni costo?

 

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