La funzione dell'amore nella mediazione familiare

Perché non si può parlare d'amore a un uomo e una donna che si vogliono separare? Perché pure i mediatori familiari, professionisti deputati ad accompagnare la coppia in fase di separazione, eludono o rimuovono la parola amore dal loro esercizio? Non è forse la mediazione familiare proprio il territorio dell'amore che, giunto alla sua fine, deve imparare a rinnovarsi (soprattutto dove ci sono dei figli coinvolti) in una forma che non necessariamente contempli la vita di coppia?

La funzione dell'amore nella mediazione familiare
"La schiena dell'amore è l'odio, il petto dell'odio è l'amore"
Manuel Scorza

Voglio qui riflettere attorno ad una rimozione registrata in tante presenze a convegni, seminari, percorsi formativi, visioni di altrui mediazioni familiari: l'assenza (o comunque la ridotta e imbarazza presenza) della parola "amore", del discorso sull'amore nei processi -appunto- di mediazione familiare; come se ci fosse una sorta di ritrosia, una qualche forma di pudicizia ad affrontare tale argomento di fronte a un uomo e una donna che, spesso, si presentano, invece, carichi di rancore, quando non di vero e proprio odio.

Ma si può non parlare d'amore in un percorso di mediazione familiare? Si può evitare il discorso sull'amore in quel luogo che è la mediazione familiare, luogo deputato proprio a cercare di risolvere i conflitti, le paure, le fatiche di un amore che si è perduto? 

Il mediatore, interrogato sulla questione, risponde -ahinoi- spesso affermativamente; il docente alla lezione di mediazione familiare risponde -ahinoi- spesso affermativamente, l'esperto o, presunto tale, di mediazione familiare risponde -ahinoi- spesso affermativamente... Ci son interi libri sulla mediazione in cui non compare per nulla tale vocabolo... "amore".

"Ma come," intona, più o meno all'unisono, questo coro: "parlare d'amore a due che si stanno separando? A due che, se va bene, si disprezzano, quando non si odiano? A due che, se potessero, si cancellerebbero dalla faccia della loro reciproca storia, se non della storia tutta?". 

Sì! E, sia detto chiaramente, senza alcun fondamentalismo né fondamento religioso. 

Soprattutto a loro è necessario parlare d'amore. A loro che sono comunque il frutto di un amore pregresso, loro che senza quell'amore non esisterebbero nella loro "noità": quel frammento di storia, breve o lunga che sia, che unisce nel "noi" due "io" separati ed è patrimonio delle loro identità, di quello che, nel bene o nel male, sono diventati dopo che quel "noi" si è concretato; loro che, magari, hanno anche figliato allargando quel "noi" a territori di cui saranno responsabili per sempre... 

La formula tanto cara alla Sacra Romana Chiesa: "finché morte non vi separi", che sancisce il matrimonio come inseparabile vincolo, lungi dal dover essere letta come castrante costrizione che obbliga due infelicità coniugali a perpetrare i loro sadismi cercando di farseli masochisticamente piacere, andrebbe invece interpretata, come sempre accade con i diktat religiosi, per le sue indicazioni costruttive, anziché per il suo giogo distruttivo. 

Per questo, la mediazione familiare, per come io la intendo, è anzitutto il territorio del'amore: dell'amore finito e di quello che, con tutta la fatica del caso, il mediatore deve aiutare a far ricominciare, non nel senso di una forzata e ideologica ricongiunzione, ma accompagnando le parti alla scoperta di quell'amore diverso che la fine di un amore sempre dovrebbe contemplare quale capacità di riconoscere l'Altro che ho amato come parte indissolubile, nel bene e nel male, di ciò che sono.