Freud e l’archeologia: traumi da scoprire o nuove storie da raccontare?

Freud, il padre della Psicoanalisi, era noto per la sua passione per l’archeologia che usò spesso come metafora per illustrare la modalità stessa del procedere del metodo psicoanalitico. Da allora molti passi avanti sono stati fatti, non solo all’interno della psicoanalisi, ma della psicologia e più in generale delle scienze sociali. Che il lavoro psicoterapeutico consista nello “scavare nelle profondità della psiche” è uno stereotipo ormai tanto inquietante quanto obsoleto rispetto alle moderne teorie costruttiviste e relazionali della mente.

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Sigmund Freud si dedicò allo studio dell’archeologia con altrettanta passione che allo studio della psiche umana. Contemporaneo di grandissimi archeologi come Schliemann (che riportò alla luce i resti dell’epica città di Troia), fu sempre affascinato dalla scoperta dei reperti della storia passata dell’umanità. Questo procedimento stratigrafico ispirò metafore celebri con le quali descrisse in molte sue opere il metodo psicoanalitico da lui praticato (Marchioro, F., Freud archeologo, Rivista di psicologia contemporanea, genn-febb, 2012). La metafora archeologica ha sostanziato uno stereotipo presente ancora oggi nel senso comune, quello cioè che fare un percorso psicoterapeutico significhi andare a scavare in recessi profondi e oscuri della mente per riportare alla luce misteriosi “traumi dimenticati”.

 

Freud e la scienza positivista

L’archeologia era utilizzata da Freud sostanzialmente per descrivere quella che era una concezione della terapia psicologica da un lato rivoluzionaria, dall’altro comunque influenzata dalle concezioni positiviste e meccaniciste dell’epoca secondo le quali l’analista manteneva un atteggiamento “neutrale” per far emergere i ricordi traumatici che i pazienti richiamavano alla memoria, ricordi che si riteneva, appunto, fossero “già lì da qualche parte” nella mente del paziente e che dovessero soltanto essere disseppelliti dalle profondità stratigrafiche della psiche per essere riportati alla coscienza (Pennella, A., L’interazione clinica, Franco Angeli, 2008).

 

Dall’archeologia alle scienze cognitive

Oggi l’archeologia come metafora della psiche e del lavoro psicologico risulta obsoleta in confronto alle concezioni epistemologiche più “complesse” condivise dalle Scienze moderne e dalle scoperte della psicologia cognitiva; sappiamo infatti che la memoria autobiografica è tutt’altro che un raccoglitore passivo di tracce dei nostri eventi personali, questi nell’essere archiviati e poi successivamente richiamati alla mente subiscono sempre un certo grado di distorsione e reinterpretazione: i ricordi autobiografici non sono copie fedeli e immutabili degli episodi passati, ma attive ricostruzioni narrative di essi con le quali ci forniamo a posteriori giustificazioni, spiegazioni o interpretazioni più o meno efficaci a “fare i conti” e a venire a patti con essi.

 

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Dai traumi rimossi di Freud alla ricostruzione narrativa

Rispetto ai tempi di Freud, la Salute Mentale è sempre meno identificata con la capacità di ricordare il passato tout court, quanto con la possibilità di recuperare e integrare aspetti emotivi e cognitivi delle esperienze, distanziarsene per poterle ripercorrere e rielaborare da differenti punti di vista e integrarle in armonia e non in contraddizione col resto della propria storia di vita. Più che riportare alla luce ricordi dimenticati si tratta di ricostruire narrativamente tali ricordi grazie all’esperienza di una relazione, quella terapeutica, dalla quale trarre nuove categorie per riposizionarsi rispetto al passato da una diversa prospettiva che, grazie alla conoscenza di sé stessi, trovi le risorse utili ad andare avanti e ad innescare un cambiamento.

 

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