La grammatica dei conflitti: intervista a Daniele Novara

Siamo quotidianamente a contatto con i conflitti, dal lavoro alla vita privata. Come fare per affrontarli e gestirli al meglio? Come trasformare la contrarietà in risorsa? Lo abbiamo chiesto a Daniele Novara, pedagogista, consulente e formatore.

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Daniele Novara, pedagogista, consulente e formatore, dirige dal 1989 il Centro Psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti (CPP) di Piacenza. Autore di numerosi libri e pubblicazioni, ha ideato diversi strumenti pedagogici interattivi e segue progetti anche a livello internazionale. Lavora presso alcuni sportelli di consulenza pedagogica dedicati ai genitori. Lo abbiamo intervistato per saperne di più sul suo libro La grammatica dei conflitti. L'arte maieutica di trasformare le contrarietà in risorse, edito da Sonda.

 

Viviamo quotidianamente a contatto con i conflitti, a scuola, al lavoro, nella vita privata. Paradossalmente però si fa di tutto per evitarli come mai? Quali sono i presupposti che si celano dietro la conflittualità?

Non siamo attrezzati per affrontare adeguatamente i conflitti. I motivi sono vari. Nell’ambito della mia ricerca ne ho isolati due che mi sembrano particolarmente rilevanti. Il primo è definibile come alienazione semantica ossia un continuo, sistematico bombardamento che confonde l’utilizzo della parola conflitto con quello della parola guerra. Al punto che la guerra - e anche la violenza - appare più un’esperienza lineare, evidente, chiara di quella del conflitto che viene percepita nei suoi tratti di angoscia, di inquietudine, di imprevedibilità. Nell’ultima guerra in Libia i media si sono sbizzarriti ad utilizzare la parola conflitto invece che più legittimamente la parola guerra. Difficile pensare al termine conflitto quando una città di circa 500.000 abitanti come Tripoli, una delle più importanti città africane, viene sistematicamente bombardata per sei mesi. Quando poi abbiamo un conflitto col nostro collega di lavoro, col nostro vicino di casa, ecco che nell’immaginario inconscio la confusione semantica crea un senso di sgomento che ci paralizza impedendoci da un lato di agire o favorendo dall’altro azioni in un senso eliminatorio come sono le azioni di violenza.

 

Il secondo fattore critico è quello dell’infanzia. Nonostante tutti i grandi miglioramenti, cambiamenti, progressi che abbiamo fatto nella crescita dei bambini e delle bambine, la gestione dei litigi resta ancora un tabù. Si interviene nei litigi infantili esattamente come si interveniva nei
secoli passati, ossia reprimendo, inibendo, giudicando, colpevolizzando, a volte anche menando i contendenti. Nonostante tutti i riscontri scientifici che confermano come il gioco della lotta sia la cosa più fisiologica e naturale in ogni ordine di mammiferi e che anche i nostri cuccioli imparano nel litigio, compreso quello corporeo, ed è per loro un modo insostituibile di imparare a stare al mondo, la colpevolizzazione regna sovrana. La prima domanda che si fa ai bambini è sempre questa “Chi è stato?” aggredendo il piccolo e umiliandolo verbalmente. La vergogna si incista nella sua esperienza infantile riaffiorando inconsciamente nell’età adulta, rendendo le situazione di contrarietà relazionali minacciose e in certi casi vissute con un evidente sensazione di pericolo. Gli antidoti ci sono. Occorre lavorare sulla distinzione tra conflitto e violenza. Nel conflitto si tratta di fare manutenzione relazionale, la violenza viceversa è soltanto da evitare in quanto elimina la relazione eliminando chi porta il problema. Da questo punto di vista è proprio nel saper stare nel conflitto che si creano le condizioni per evitare la violenza. Le persone con carenza conflittuale sono quelle più esposte al delirio paranoico di eliminare chi disturba.

 

Che cosa si intende per so-stare nel conflitto? Quanto è importante imparare a gestire le difficoltà relazionali?

La formula so-stare nel conflitto venne inventata dal nostro Centro per il Convegno di Genova del 1999 che segnò il decennale della nostra storia. Da allora questa formula ha avuto molto successo. Si contrappone alle funzioni puramente tecnicistiche dell’affrontare i conflitti che puntano unicamente alla soluzione del conflitto stesso e lo vedono come un incidente di percorso che va ripristinato adeguatamente. Viceversa nella storia del nostro Istituto e come ho spiegato nel libro La grammatica dei conflitti si tratta di imparare a stare nel conflitto che vuol dire:
accettare e incontrare le proprie emozioni creando il distacco necessario onde evitare che le stesse tiranneggino i comportamenti spingendoci verso reazioni puramente pulsionali; saper leggere il conflitto proprio come se fosse un libro aperto e quindi imparando a decodificare le componenti e specialmente avendo la consapevolezza che ogni conflitto per essere tale presenta sempre qualcosa di nascosto, di non percepibile alla percezione immediata e quindi necessita un’indagine e una lettura più profondea; la consapevolezza della propria sostenibilità, ossia che ognuno di noi ha un indice di conflittualità specifico, personale che va riconosciuto, coltivato, migliorato, ma anzitutto rispettato.
Abbiamo chiamato questo approccio maieutico dei conflitti perché è innanzitutto un’esperienza di ascolto e un’esperienza che consente di tirar fuori le proprie capacità creative.

 

Perché una Grammatica dei conflitti?

Ritengo che i conflitti siano un’occasione di alfabetizzazione, quindi hanno la loro specifica grammatica. Non posso dire che il mio libro esaurisca tutta questa grammatica, direi che c’è ancora tanto da fare. Però ho incominciato a mettere una cornice dove si possano successivamente costruire altri contenuti e orientamenti più specifici. Questo processo di alfabetizzazione è imprescindibile in una società come la nostra che a partire dagli anni ‘60/70 si è liberata dal concetto arcaico di autorità assoluta e quindi dal concetto di verticalizzazione autoritaria. In una società fortemente orizzontale come la nostra occorre che ciascun cittadino per essere tale abbia questa capacità di stare nei conflitti e nelle contrarietà, che sappia farsi rispettare senza violentare gli altri, sappia esprimere la propria opinione accettando anche quella degli altri, sappia in altre parole creare un’autoregolazione che parta anzitutto dalla persona singola.

 

Quali sono gli errori più comuni in cui si incorre quando si vive un conflitto? Cos’è il tasto dolente e in che modo ci condiziona?

La teoria dei tasti dolenti nelle situazioni conflittuali è tipicamente pedagogica. Proprio il mio lavoro pedagogico mi ha consentito di riconoscere con molta chiarezza come il nesso fra difficoltà nei conflitti e tasti dolenti infantili sia assolutamente imprescindibile, con una chiarezza che a volte appare sorprendente, nelle stesse persone che compiono questa auto analisi. Più proseguo il mio lavoro più mi rendo conto che la carenza conflittuale è sostanzialmente una cattiva educazione, una crescita che non ha avuto quello che avrebbe potuto avere, che ha lasciato nell’esperienza adulta delle ferite che si cerca di sanare respingendo dalla nostra vita i necessari conflitti che in realtà potrebbero essere la terapia giusta. È un’area di lavoro che sto proseguendo, specialmente attraverso il processo di manutenzione dei tasti dolenti. Che da un lato è un processo di ricerca scientifica, dall’altro è anche un processo strettamente esperienziale.

 

Reagire immediatamente a una difficoltà per non perdere la faccia. Perché quello della tempestività è un falso mito pedagogico. Come si impara ad affrontare l’emotività e con quali strumenti?

Gli strumenti sono tantissimi, nel libro parlo del diario dei conflitti, uno strumento accessibile a tutti. Il diario dei conflitti vuol dire scrivere letteralmente i propri conflitti per poi dopo qualche mese poterli rivedere oppure semplicemente come forma di decantazione emotiva. Tutti questi strumenti hanno una base individuale ma poi la loro forza aumenta se vengono socializzati. Il diario dei conflitti socializzato in gruppi ha una forza trasformativa eccezionale. Il gruppo ha la capacità di consentire alla persona un confronto che permette di uscire dalla propria paura, dalla propria autoreferenzialità, dalle tirannie emotive. Ovviamente il modo migliore è quello di arrivare proprio al tasto dolente infantile, riconoscendolo lo si può incontrare, incontrandolo lo si può prendere per mano e accompagnarlo verso un’integrazione personale dentro di sé.

 

Il conflitto può diventare un’esperienza di apprendimento: in che modo l’approccio maieutico può influenzare positivamente la nostra crescita personale?

Ogni persona ha risorse più significative di quelle che pensa. La maieutica si sposa molto con la teoria della resilienza che tende ad evidenziare come l’essere umano sia più ricco e abbia più risorse di quelle che vengono normalmente utilizzate. L’esperienza conflittuale consente di mettersi alla prova. Ecco che allora si impara, si acquista una forza particolare. Non c’è niente di meglio per l’autostima personale dell’esperienza di aver saputo esplicitare il conflitto senza sentirsi travolti dalle emozioni. Magari riuscendo anche a creare una comunicazione
adeguata.

 

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