Psicologia dell'intelligenza: intervista a Silvana Miceli e Amelia Gangemi

Quando si parla d'intelligenza molti pensano al QI, ma il concetto di intelligenza è molto più complesso e abbraccia ambiente, DNA, creatività e diversi altri fattori. Abbiamo intervistato le professoresse Silvana Miceli e Amelia Gangemi, autrici di "Psicologia dell'intelligenza", per saperne di più

Psicologia dell'intelligenza: intervista a Silvana Miceli e Amelia Gangemi

È in libreria, edito da Laterza, Psicologia dell'intelligenza, un testo che si interroga su cosa sia, come si sviluppi e di che cosa sia capace la nostra intelligenza. Le autrici Silvana Miceli e Amelia Gangemi superano il concetto di quoziente intellettivo come un qualcosa di misurabile attraverso semplici test psicoattitudinali e allargano il discorso parlando dell'intelligenza come quella facoltà umana che ha a che fare con l'ambiente, il DNA, la creatività e diversi altri fattori non tutti definibili mediante questionari. Silvana Miceli è professore associato di Psicologia generale presso la Facoltà di Scienze della formazione dell'Università di Palermo. Amelia Gangemi è professore associato di Psicologia generale presso la Facoltà di Scienze della formazione dell'Università di Messina. Abbiamo intervistato le autrici per saperne di più sulla Psicologia dell'intelligenza.

 

Partiamo da una definizione: cos’è la psicologia dell’intelligenza?

La Psicologia dell’Intelligenza indaga uno dei temi di maggiore interesse non soltanto per gli specialisti del settore, ma anche per l’uomo comune, da sempre affascinato e incuriosito dalle sue proprietà funzionali e dalle sue implicazioni nella vita di ogni giorno. Malgrado l’Intelligenza rappresenti da sempre un’area di studio centrale per la psicologia, manca a tutt’oggi un consenso generalizzato sul modo di definirla e sulle specifiche abilità che essa sottende, distinguendole da quelle di altri processi cognitivi in qualche modo connessi (memoria, pensiero, attenzione). Ciò appare comprensibile, ove si tenga conto che sia nel parlar comune, che nel discorso scientifico, il termine intelligenza finisce con l’acquisire un carattere polisemico, tale da rendere impossibile una sua definizione univoca. Pensiamo all’intelligenza di un individuo quando cerchiamo di valutare le sue prestazioni, quando analizziamo la sua capacità di creare validi e significativi rapporti con gli altri, quando osserviamo la soluzione di un problema, sia esso di carattere astratto che di carattere concreto. Emblematico in tal senso, il dibattito sviluppatosi nel corso del simposio Intelligence and its Measurement organizzato nel 1921 dal Journal of Educational Psychology. Gli esperti chiamati ad intervenire sul tema espressero punti di vista così eterogenei, da giustificare la nota conclusione tautologica di Boring, secondo cui l'intelligenza non è altro che la capacità di far bene nei test d'intelligenza. Benché in termini diversi, il dibattito è ancora oggi ugualmente vivace; la psicologia dell’intelligenza continua infatti a porsi una serie di interrogativi oggetto delle sue attuali ricerche. Ad esempio, l’annoso e ancora irrisolto dibattito tra eredità e ambiente; la questione relativa a un possibile potenziamento delle abilità intellettive attraverso la messa a punto di specifici programmi sviluppati in ambito educativo e neurobiologico; l’effettivo rapporto tra intelligenza e creatività, e infine la revisione critica del concetto di Q.I. e la conseguente costruzione di strumenti che valutino le prestazioni intellettive in condizioni ecologicamente valide.

 

Il dibattito sull’intelligenza è ancora molto attuale: come si collegano eredità e ambiente?

I ricercatori che si sono occupati di questo problema hanno assunto inizialmente due posizioni sostanzialmente contrapposte: la prima considera determinante, nell'economia di un sano e corretto sviluppo cognitivo, il ruolo dei geni, l'altra, invece, guarda all'ambiente e agli stimoli che esso
fornisce, riconoscendo a questi ultimi un ruolo di rilievo. Tuttavia, sia le ricerche ispirate ai modelli ereditaristici, che quelle di matrice ambientalista, nel cercare di isolare quanto più possibile le due variabili, eredità vs. ambiente, hanno finito con l’ignorare il rapporto dinamico e fortemente interconnesso che vi è tra di esse. Malgrado si sia scoperto, ad esempio, che ci sono centinaia di geni coinvolti nell’intelligenza, il loro effetto, presi singolarmente, è così piccolo da essere nella maggior parte dei casi appena rilevabile. Ogni gene influenza infatti più funzioni cognitive (pleiotropia) e ogni processo cognitivo è influenzato da più geni (poligenicità). Anche la condivisione di uno stesso genoma, come nel caso dei cloni, non garantisce la formazione delle medesime strutture. Risulta, pertanto, estremamente complesso individuare un preciso rapporto tra eredità e ambiente nella determinazione del Q.I. Quella che viene spesso quindi considerata "l’unicità" dell’individuo è la risultante, non soltanto della diversa dotazione genetica che contraddistingue ciascun soggetto, ma anche delle diverse "esperienze ambientali" con le quali ciascuno di noi, inevitabilmente, entra in contatto poche settimane dopo la fecondazione.

 

Secondo Dickens e Flynn, ad esempio, una predisposizione genetica spinge a selezionare e a sfruttare l’ambiente più favorevole allo sviluppo delle potenzialità biologiche, determinando un effetto moltiplicatore tra talento ed ambiente. Un bambino che presenta una predisposizione al canto, tenderà non solo ad esercitare quanto più possibile tale attitudine, ma a ricercare attivamente nel proprio ambiente condizioni e situazioni in grado di sviluppare la potenzialità di base, parteciperà più di altri bambini a manifestazioni canore, frequenterà gruppi di canto, etc. Il problema non sta, perciò, tanto nel decidere a favore dell’uno o dell’altro dei due punti di vista, quanto piuttosto nel cercare di comprendere quanta parte dei correlati misurati dal Q.I. sia ascrivibile ai geni oppure debba essere riferita a fattori ambientali. In sostanza, il problema è comprendere come geni e ambiente interagiscano. È proprio questa la nuova sfida che la Psicologia dell’Intelligenza propone al mondo scientifico. Poche ancora le risposte, che sembrano tuttavia enfatizzare il ruolo che l’ambiente ha nel plasmare il cervello. Ad esempio, indagini post-mortem condotte sui cervelli di tre gruppi di ratti vissuti in ambiente diverso (ambiente privo di stimoli; ambiente scarsamente stimolante; ambiente arricchito), hanno mostrato, nel gruppo dei ratti vissuti in ambiente arricchito, un significativo aumento nel peso del loro cervello, nel numero totale di neuroni e nel numero dei neurotrasmettitori cerebrali. Le esperienze e le forme di apprendimento sviluppate dall’animale in un contesto ricco di stimoli aveva indubbiamente modellato in modo diverso, il cervello di questi ratti, a differenza di quanto avveniva negli altri animali. Il patrimonio genetico di cui ogni essere vivente dispone, sembra dunque fornire disposizioni generali, che l’uomo però può cambiare attraverso un’opera di continuo modellamento cerebrale: la stimolazione dei circuiti cerebrali, attivando un numero sempre più elevato di sinapsi ampia l’hard disk della mente, rendendo i processi mentali più efficienti.

 

L’intelligenza si può potenziare? Quali sono le differenze tra la prospettiva neurobiologica e quella evolutivo-educativa?

Negli ultimi decenni sono stati compiuti passi enormi nella comprensione dei processi biologici sottesi all’intelligenza, che hanno permesso di chiarire, da un lato la relazione tra il funzionamento del cervello e le abilità intellettive, e dall’altro il ruolo che l’esperienza esercita nel processo di sviluppo/potenziamento delle stesse. Le più recenti ricerche nel campo delle neuroscienze attestano oggi una maggiore e più complessa dinamicità all’interno del cervello. Ad esempio, il concetto di una rigida localizzazione delle funzioni nei due emisferi (emisfero sinistro = funzioni linguistiche; emisfero destro = funzioni spaziali) richiede ulteriori approfondimenti. Gli studi condotti con tecniche di neuroimaging, mostrano infatti, come uno stesso compito possa attivare aree cerebrali differenti sulla base dell’esperienza di chi lo svolge. Lo stesso concetto di neuroplasticità è oggi sottoposto a revisione. La ricerca, negli ultimi dieci anni, ha prodotto numerose evidenze che attestano che il cervello nel corso della sua intera esistenza non perde mai la capacità di produrre neuroni. Esso non è, dunque, cablato, cioè resistente al cambiamento, ma altamente sensibile agli stimoli che l’ambiente costantemente gli offre. Intelligenti dunque, non solo si nasce ma anche si diventa grazie all’esperienza. Ed è proprio a partire da tale assunto che sia la prospettiva neurobiologica che quella evolutivo-educativa hanno sviluppato programmi e tecniche di intervento volte ad un potenziamento delle abilità intellettive. Secondo le neuroscienze ad esempio, è possibile paragonare il cervello ad un vero e proprio muscolo, che come ogni altro del nostro corpo, necessita di continuo allenamento.

 

Se è vero che la massa muscolare tende a ridurre il suo volume con l’avanzare dell’età, è tuttavia altrettanto vero che un’attività fisica costante, riduce notevolmente tali effetti. In questa prospettiva, uno stile di vita ricco e stimolante che esponga il soggetto a nuove esperienze, sia culturali che sociali, favorisce significativamente il funzionamento cerebrale. Anche l'esercizio fisico potenzia le funzioni esecutive del cervello, poiché consente una migliore ossigenazione di tutto il sistema cardiovascolare. Gli studi hanno evidenziato effetti significativi dell’attività fisica, in particolare, sulla struttura cerebrale dell’ippocampo, che risulta implicato nei processi di memoria. Allo stesso modo, un particolare regime alimentare, ricco di antiossidanti, sembra migliorare alcune funzioni implicate nei processi intellettivi, quali l’attenzione spaziale, la discriminazione visiva e le capacità di apprendimento.

 

La prospettiva neurobiologica si è però principalmente focalizzata sulla messa a punto di tecniche di ingegneria genetica volte a potenziare l’intelligenza. Tali studi, che aprono prospettive estremamente affascinanti e di grande interesse, sono tuttavia ancora in una fase del tutto preliminare e testate esclusivamente su campioni non umani. Ad esempio, un gruppo di ricercatori dell'Università di Emory, in Georgia, facenti capo ad Hepler, ha osservato alcuni animali a cui era stato disattivato, con una pillola, un gene chiamato RGS14. Gli animali a seguito di tale manipolazione genica, hanno mostrato un più alto livello di intelligenza, una migliore capacità mnestica e una più elevata capacità di apprendimento. Il gene RGS14 svolge dunque, un ruolo significativo nella trasmissione dei segnali nell'area cerebrale CA2, una delle zone dell’ippocampo meno esplorata della nostra mente. I ricercatori hanno scherzosamente chiamato questo gene Homer Simpson. Appare infatti bizzarro immaginare la presenza in un organismo di un gene che anziché migliorare le abilità le limiti. Ugualmente interessanti gli studi di Hen e collaboratori, in quali, mediante l’uso di un regolatore dei neuroni (un interruttore genico chiamato Bax), hanno disattivato in alcuni topi, un gene che determina la morte di gran parte delle cellule cerebrali di nuova formazione, aumentando di 2-4 volte il numero dei loro neuroni, rispetto alle cavie con l’interruttore del gene "acceso". Tale aumento ha reso gli animali più abili nell’esecuzione di prove cognitive.

 

La prospettiva evolutivo-educativa considera invece, l’intelligenza come una capacità che può essere appresa e, sulla quale dunque si può intervenire attraverso specifici programmi educativi. In questo ambito, il contributo di maggior rilievo si deve allo psicologo israeliano Feuerstein che, a partire dal 1950 ha elaborato la teoria sulla "modificabilità cognitiva strutturale", secondo la quale l’individuo può, in ogni momento della propria vita attivare e incrementare le proprie funzioni intellettive. A partire da tale presupposto l’autore ha messo a punto un programma di arricchimento strumentale rivolto ai bambini, finalizzato allo sviluppo delle capacità metacognitive, in grado di creare nuovi processi di pensiero, di organizzazione e selezione dei dati. Indubbiamente la scuola si pone come il luogo educativo privilegiato per sviluppare e promuovere le abilità intellettive degli allievi, svolgendo inoltre un ruolo cruciale nel riconoscere e nel sostenere i cambiamenti evidenziati dal soggetto. Oggi forse la scuola non è del tutto in grado di svolgere appieno queste fondamentali funzioni. Sebbene negli ultimi anni abbia infatti migliorato e moltiplicato l’offerta formativa, continua pur tuttavia ad essere principalmente interessata ad una mera trasmissione di contenuti. Risultano a tutt’oggi carenti programmi educativi centrati sul problem solving, sulle abilità creative, sulla meta cognizione, in grado di stimolare e migliorare il processo conoscitivo.

 

Com’è cambiato il rapporto tra intelligenza e creatività?

Inizialmente, gli studi che hanno indagato il rapporto tra intelligenza e creatività, hanno portato all’affermarsi di due opposte concezioni: la prima, riconducibile alla teoria gerarchica della scuola inglese identifica la creatività con l'intelligenza, sostenendo l'esistenza di un'intelligenza generale da cui dipendono diverse abilità specifiche; la seconda, invece, rappresentata dalla teoria multifattoriale, introduce una distinzione tra abilità intellettive e abilità creative: se il possesso di elevate capacità intellettive rappresenta un valido prerequisito, l’atto creativo presuppone qualità che non si esauriscono in esse, e che vanno, dunque, oltre. In alcuni casi addirittura, un elevato Q.I. – che rende le persone sicure della propria conoscenza e capacità – può far perdere la curiosità e l’interesse per le cose nuove. Apprendere, giocare con le regole e con le nozioni di un determinato campo, potrebbe essere talmente facile per un soggetto con un alto livello intellettivo da far scemare, nello stesso, l’incentivo a porsi domande, dubbi, inibendo in tal modo i suoi processi creativi. In linea con quest’ultima posizione, le più recenti teorie affermano che la relazione tra intelligenza e creatività è in realtà mediata da variabili terze, come ad esempio alcuni fattori di personalità, tra cui l'apertura all'esperienza. Individui con un alto grado di apertura mentale sono sia più intelligenti che creativi rispetto ai soggetti con un minor grado di apertura mentale. La relativa indipendenza dei due costrutti in questione non esclude tuttavia una loro proficua interazione nel determinare quella che Sternberg chiama Successfull Intelligence, definita come l’insieme di abilità che consentono il raggiungimento del successo nella vita. Secondo l’autore, infatti, un individuo è successfull intelligent non solo quando è in grado di adattarsi al contesto ambientale (intelligenza), ma anche quando modifica ed elabora in modo creativo gli input ambientali in funzione dei propri scopi.

 

Quanto e come l’intelligenza influenza la nostra crescita personale?

Appare chiaro, e questo del resto era il nostro obiettivo, come il volume offra una nuova e più completa visione del costrutto intelligenza, ampiamente riformulato alla luce delle più recenti acquisizioni. Con l’espressione intelligenza si fa oggi riferimento alla capacità degli organismi viventi di risolvere le sfide che l’ambiente pone loro, attraverso meccanismi che possono essere sociali, come l’emulazione o l’imitazione, ma che possono anche essere di natura individuale. Il concetto di intelligenza assume in questo modo una accezione molto più ecologica, perché evidenzia come il sorgere di certi meccanismi, e non di altri, in ciascuna specie, sia da ricondurre alle specificità genetiche e cognitive che la caratterizzano, e che le varie forme di intelligenza non possono essere confrontate se non a partire da questa prospettiva: i tratti distintivi della mente dei sapiens si sono evoluti in risposta alle sfide ambientali che la specie ha incontrato nel corso della propria storia evolutiva. La relazione tra organismi e ambiente è infatti di tipo biunivoco, in quanto l’ambiente plasma le particolari strategie cognitive e comportamentali degli organismi, ma gli organismi stessi intervengono sull’ambiente. In questa accezione l’intelligenza comprende anche le strategie cognitive che caratterizzano ad esempio il problem solving o, più in generale, i differenti modi cui gli individui ricorrono per far fronte alle sfide e agli ostacoli presenti nell’ambiente.

 

Tutto questo ovviamente amplifica il valore adattivo dell’intelligenza che diventa in tal modo una variabile fondamentale nel percorso di vita di un individuo, sia per la sua crescita personale che per la sua affermazione nel mondo. Tali possibilità non dipendono unicamente dalle capacità logico matematiche, linguistiche o di memoria normalmente valutate dai tradizionali test di intelligenza, ma anche da altre variabili fondamentali legate ad esempio alla capacità di guardare dentro di sè, di avere quindi un accesso alla propria vita affettiva, all’ambito delle proprie emozioni, alla capacità di discriminare istantaneamente fra i diversi sentimenti vissuti, per poter comprendere e di conseguenza modulare il proprio comportamento. Queste competenze conducono indubbiamente ad un maturo senso del sé e ad un efficace e soddisfacente rapporto con gli altri individui.

 

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