Fase 2 e riapertura dei teatri. Intervista ad Ascanio Celestini

Ascanio Celestini dal 1998 esplora il teatro impegnato. Ci spiega come deve ripartire dopo la chiusura: "Lo si deve fare a partire dai nostri diritti come lavoratori. Poi parliamo anche di poesia".

Ascanio Celestini

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©Musacchio, Ianniello & Pasqualini

Il 15 giugno 2020 è prevista la riapertura dei teatri. Gli spettacoli saranno permessi alla presenza di pubblico in sale teatrali, sale da concerto e cinema, soltanto con posti a sedere preassegnati e distanziati; a condizione che sia comunque assicurato il rispetto della distanza interpersonale di almeno un metro sia per il personale, che per gli spettatori. 

L'applicazione delle misure di distanziamento sociale possono, però, risultare irricevibili e penalizzanti per il teatro, luogo di socialità e di condivisione di esperienze artistiche. Una socialità intrinseca nel pubblico del teatro.  

 

Lei trova le misure di distanziamento sociale irricevibili e penalizzanti per il teatro (come per il cinema)?

Dobbiamo pensare il teatro come un luogo che non è separato dalla società. Viviamo attraversando spazi differenti e vivendoli in tempi diversi, ma comunicanti. Il teatro è diverso dal supermercato come la fabbrica è diversa dalla scuola.  

 

Ogni luogo e ogni tempo ha il suo specifico. Le norme igieniche come i diritti e doveri dei cittadini sono gli stessi. In queste settimane invece sono state fatte differenze e create gerarchie che hanno messo ai primi posti profitti e poteri in maniera antidemocratica. Perché posso andare in profumeria, ma non al cinema? Perché le fabbriche di automobili hanno riaperto prima dei teatri? Perché i genitori devono tornare a lavorare, mentre ai loro figli è imposto di stare a casa e vivere un surrogato della scuola? Nel migliore dei casi la formazione dei nostri studenti è entrata nelle nostre case con generiche informazioni e solo per l’impegno lodevole degli insegnanti e nonostante la latitanza delle istituzioni. 

 

Io chiedo che il teatro sia considerato alla pari di ogni altro luogo di vita e lavoro. Le differenze poetiche sono una questione che affrontano gli artisti e i tecnici che li supportano. Accettato questo presupposto lavoreremo per una socialità che sia minata il meno possibile

 

I decreti ministeriali si sono dimenticati o hanno negletto il mondo della cultura, dimostrando poca attenzione. Come si può combattere questa noncuranza?

Fino a qualche settimana fa pensavamo che le istituzioni considerassero teatro, cinema o museo come una qualsiasi azienda del Paese. Abbiamo sentito imbecillità come “la cultura non si mangia” e roba del genere. Ci hanno detto che il teatro non deve essere sovvenzionato, ma vivere di sbigliettamento. Insomma ci hanno spiegato che questi luoghi devono sopravvivere come una qualsiasi azienda con fini di lucro. Ma in queste settimane di lockdown la situazione s’è rivelata peggiore

 

Sono state sostenute aziende e tutelate attività che producono armi o automobili, mentre per il settore dello spettacolo è stata prevista una elemosina a pioggia. L’affermazione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è piombata sul Paese come un lapsus rivelatore. “I nostri artisti che ci fanno tanto divertire” è un manifesto politico della classe dirigente. Per loro siamo un’alternativa all’aperitivo.  

 

Non solo si può, ma si deve combattere questa noncuranza. E lo si deve fare a partire dai nostri diritti come lavoratori. Poi parliamo anche di poesia. 

 

Crede il mondo della cultura possa ripartire dal teatro?

Lo spettacolo dal vivo è il perno della produzione culturale. In teatro si incontrano esseri umani che provengono da luoghi e strati della società differenti. 

 

Invece la classe dirigente s’è impegnata soprattutto nel motivare le persone a tagliare le proprie relazioni attive favorendo quelle passive e virtuali. Ripartire dal teatro significa rimettere al centro le relazioni umane

 

Quale ricetta suggerirebbe al sistema politico per risollevare anche il mondo dello spettacolo?

Due programmi che avrebbero senso anche senza l'emergenza che stiamo vivendo.  Il primo è una mappatura dello spettacolo dal vivo a partire dalle migliaia di teatri italiani che ci mostri quante persone vivono di questa pratica, come e dove. 

 

Ancora, un piano regolatore della cultura per comprendere quale sia il bisogno di produzione culturale nella società per progettare luoghi ed esigenze dell'arte di oggi e di domani. 

 

Alla mezzanotte del 15 giugno lei sarà il primo in scena. L'affermazione denota entusiasmo e passione per il rientro al lavoro o per la fine del lockdown? Come ha vissuto il periodo di confinamento lontano dalle luci della ribalta?

All’inizio del confinamento ho letto dichiarazioni di colleghi che auspicano che da questo “tempo sospeso” possa nascere un teatro migliore. Sarebbe come dire che un operaio disoccupato ha il tempo per sognare una catena di montaggio più rispettosa dei suoi diritti e magari anche poetica. 

 

A me pare che l’unica libertà per un artista che non sia mai stata in discussione è quella di potersi fermare, di smettere di recitare o scrivere o dipingere. Se un teatrante sente questa urgenza può farlo con o senza l’imposizione del governo. 

 

Contrariamente mi pare che quel che è emerso è il terreno paludoso nel quale affonda il teatro in particolare e il mondo artistico in generale. Le idee ci sono. La possibilità di trasformarle in progetti realizzabili, invece, è spesso una rincorsa in salita. 

 

In queste settimane il mio lavoro s’è ripiegato interamente dentro il mio studio e la mia testa. M’è mancato il lavoro come a tanti operai, impiegati, professionisti di ogni settore. M’è mancata la possibilità di poter fare ricerca sul campo, incontrare le storie degli altri. Per me fare ricerca chiuso in una stanza concentrandomi solo sulla scrittura e la lettura, sulla mia voce e sul mio corpo è un suicidio al rallentatore. 

 

La scelta di replicare “Radio clandestina”, che racconta la lotta partigiana e l'occupazione nazista, cosa vuole simboleggiare?

Ho debuttato venti anni fa con questo spettacolo. Da allora non ho mai smesso di portarlo in scena. È nato con l’urgenza di scrivere e fare teatro. Di farlo ovunque e per tutti

 

Ho debuttato in una stanza di un appartamento a via Tasso, a Roma. Una stanza particolare perché dal settembre del ’43 al giugno del ’44 è stata usata dai nazifascisti come luogo di tortura per i partigiani. Da allora ho attraversato i luoghi più diversi, dai grandi teatri agli spazi autogestiti.

 

L’ho portato nelle stazioni dei treni, in strada, nelle fabbriche e persino in miniera. Sento di far parte di un gruppo di artisti che ha come principale obiettivo la possibilità di compiere un rito che prevede l’incontro tra le visioni delle persone. Luci, suoni, scene sono al servizio di questo incontro. 

 

Qualcuno ha detto che la riapertura è un bluff perché vedremo solo i “monologhi da chi già li faceva, i Paolini, i Celestini…”. Ovviamente non è così. Il principale problema per la riapertura dei teatri è la gestione degli spettatori prima ancora che degli artisti. Ma in questa dichiarazione c’è un fondo di verità. Il nostro teatro è sempre stato pensato per l’urgenza. Per questo abbiamo cercato di scartare da subito tanti narcisismi attorali e ostentazioni registiche. L’arte è un’esperienza da vivere, non una bella confezione da ammirare

 

Prevede anche una turné estiva per l'Italia? Nel caso, ci sono già le date?

Ci è stato comunicato che è possibile tornare in teatro da un paio di settimane. Le difficoltà sono molte. C’è un problema logistico evidente perché gli spazi tradizionali sono pensati per tenere vicini gli spettatori.  

 

Nicola Piovani ha ricordato da subito che per gli attori, i danzatori, i musicisti e anche per il pubblico l’affiatamento è fondamentale. E questo non è un periodo buono per usare il fiato. Perciò bisognerà sconvolgere la disposizione del pubblico, contenerlo nel numero, disciplinarlo all’entrata e all’uscita. 

 

E poi saltano gli equilibri già oltremodo precari delle risorse economiche. È qui che le istituzioni devono mettere a disposizione fondi, non nell’elemosina fatta a casaccio delle settimane scorse. 

 

Da alcuni giorni siamo in contatto con le realtà che vogliono ripartire. Sarà difficile, ma con l’impegno, la pazienza e la fantasia di tutti ce la faremo