Psicologia della vendetta

Il desiderio di vendetta è un’emozione che fa parte dei nostri impulsi più elementari quando siamo vittime di un’aggressione o di un’ingiustizia. Non è però utile ad alleviare le sofferenze, anzi rischia di peggiorare le cose alimentando ruminazioni e rabbia per il torto subito.

Psicologia della vendetta

Tutti di fronte ad un torto subito avranno provato almeno una volta un chiaro desiderio di vendetta, magari anche indulgendo in fantasie più o meno elaborate sul “modus operandi” da adottare nei confronti del proprio aggressore.

Non sempre però questo impulso che potremmo ritenere trasversale alla natura umana viene messo in atto concretamente. Perché alcune persone agiscono la propria vendicatività mentre altri mostrano di poter addirittura perdonare un torto subito? Vendicarsi aiuta davvero a stare meglio?

 

Dalla legge del taglione al perdono

La vendetta a quanto pare rappresenta un’emozione piuttosto “grezza”, trasversale più o meno a tutti gli esseri umani e anche ad alcuni primati: restituire l’offesa subita sembrerebbe in sostanza un impulso piuttosto primordiale, ciò che in prima battuta il nostro sistema psicologico ci suggerisce in modo automatico e totalmente irriflessivo (McCullough et al., 2009).

D’altra parte erano le società umane più primitive a mettere in atto, come meccanismo di regolazione della convivenza sociale, la famosa legge del taglione: “occhio per occhio….!”.

Nonostante sia un impulso comportamentale così primitivo, la vendetta non rappresenta quasi mai la soluzione migliore. Questa, infatti ha dei costi psicologici notevoli per la persona che continua a rimuginare e ad alimentare risentimento, rabbia e altre emozioni negative che possono cronicizzare un livello di stress tale da mettere in pericolo la salute fisica e psicologica (Stoia-Caraballo et al., 2008; Worthington et al., 2007).

Chi si fa vendetta da sé inoltre può provocare un’ulteriore aggressività da parte dell’altro rischiando di innescare in tal mondo una spirale di violenza senza fine (si pensi alle faide fra band criminali, ma anche all’escalation della conflittualità in molti casi di divorzio quando i due ex coniugi alimentano e agiscono sentimenti di vendetta l’uno verso l’altro). Si può estinguere il desiderio di vendetta e riuscire anche a perdonare chi ha commesso un torto nei propri confronti?

 

Le alternative alla vendetta

La vendetta sembrerebbe essere la condizione essenziale per un livello piuttosto primitivo di perdono, quello che potremmo definire un “perdono vendicativo” e che è quello che è possibile mettere in atto nell’infanzia quando il bambino possiede ancora una certa immaturità cognitiva e emotiva (Kohlberg, 1976; McCullough et al., 2009).

Man mano che lo sviluppo psico-emotivo procede nel corso della vita le persone dovrebbero acquisire altri criteri in base ai quali valutare gli eventi, gestire le emozioni e rispondere ad un’offesa subita: il rimediare, da parte dell’aggressore, al torto commesso; le regole morali, religiose e sociali di riferimento o il desiderio di ripristinare relazioni armoniche e positive nella società.

Tutte queste motivazioni possono costituire criteri alternativi che rendono preferibile non agire il sentimento di vendetta – che può essere comunque avvertito dalla vittima – per cercare invece di riappacificarsi, perdonare e empatizzare con le motivazioni dell’altro (senza per questo giustificarle) o comunque prendere le distanze emotive dall’evento.

Non è sempre facile, molto può dipendere oltre che dalla gravità oggettiva dell’offesa subita, soprattutto dalle caratteristiche psicologiche della vittima.

 

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Vendetta e disturbi di personalità

In alcuni casi la vendicatività può rappresentare un aspetto distintivo del temperamento e dell’affettività di alcune persone qualora il funzionamento della propria personalità risulti problematico. In alcuni disturbi di personalità infatti, la vendetta rappresenta una delle modalità mediante le quali la persona cerca, sebbene in modi disfunzionali, di ripristinare il proprio equilibrio psicologico, non importa quanto sproporzionata o ingiustificata possa apparire rispetto al torto subito o presunto tale.

Questo avviene in particolar modo nelle personalità narcisistiche e paranoiche. Nel primo caso, parliamo di persone estremamente vulnerabili sul piano dell’autostima e del valore di sé: qualunque atteggiamento, osservazione o comportamento dell’altro che vada a disconfermare la propria grandiosità verrà percepito come una grave offesa suscitando nel narcisista una rabbia accesa (tesa a nascondere l’intensa vergogna sottostante) che alimenterà intenti vendicativi al fine di sottomettere l’altro e ripristinare la sensazione della propria superiorità.

Una persona con una personalità patologicamente paranoide invece sarà propensa a cogliere (in maniera più realistica o più delirante a seconda della gravità del disturbo) intenti malevoli in ogni comportamento altrui, la sua vendicatività sarà quindi protesa a sventare questi tentativi con i quali gli altri potrebbero umiliarla: la vendetta in questo senso non è agita per nascondere la propria inadeguatezza, ma per contrattaccare la supposta malevolenza degli altri (Mc Williams, 2012).

In generale potremmo dire che quanto più un torto subito venga interpretato dalla vittima come una grave lesione al proprio senso di identità e sicurezza psicologica tanto più sembrerebbe probabile che essa possa reagire con atteggiamenti di vendetta.

Questi possono lasciare il posto ad altri comportamenti solo se nella vittima esiste la possibilità psichica per ristrutturare cognitivamente l’evento, distanziarsene emotivamente e empatizzare con le motivazioni che lo hanno reso possibile.

Si tratta in altre parole della capacità di poter continuare a percepirsi come persone a cui è accaduto di subire un torto (più o meno grave), piuttosto che vittime di un torto che ha levato a se stessi la possibilità di sentirsi persone e quindi di pensare su quanto accaduto.

 

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