L'operatore sociale: quale professionista?

Quale futuro per il professionista che opera nel sociale?

L'operatore sociale: quale professionista?

Il lavoro sociale sta attraversando un periodo di grandi cambiamenti in relazione all’andamento di modificazione e riconcettualizzazione del Welfare. Si è passati dalla posizione di operatore risolutore dei problemi a quella di professionista come interlocutore.

L’orientamento in voga, per lo più nel Regno Unito, che sta segnando maggiormente le professioni sociali, mira ad investire di forte razionalità l’approccio con cui ci si relaziona alle persone, credendo sia possibile assoggettare tutto (anche le relazioni) all’assoluto controllo del calcolo predittivo.

Le ricerche (Fook et al.), condotte per capire le attese dei fruitori di servizi del sociale, hanno dimostrato che la variabile più importante emersa non è tanto la competenza tecnica dell’operatore con cui entrano in relazione quanto la qualità ed il valore sperimentato in tale processo relazionale.

Howe (1993) sostiene tre elementi: accettazione, comprensione, dialogo.

L’idea di fondo, in cui prende corpo l’agire dell’operatore sociale, è rappresentata dal concetto di care o pendersi cura - “attività che include tutte le azioni che compiamo per mantenere, continuare e riparare il nostro mondo, in modo tale che vi si possa vivere nel miglior modo possibile” (Fisher, Tronto, 1991, p.40) - principio fondante di tutte le professioni di aiuto, che ha originato negli anni diverse critiche.

Il lavoro con l’altro è considerato dalla maggioranza un’attività legata all’assistenzialismo, all’accudimento, concetti e temi distanti dai principi attualmente in auge e degni di considerazione, identificati da Tronto (1993) con il successo, la razionalità e l’autonomia.

Parton (2002) sostiene che una società che tenta di definire ed applicare regole generalizzabili a ciascuno e crede di poter riferire tutto alle logiche del calcolo predittivo, svaluta concetti quale quello della cura. Ma in che cosa consistono l’essere, il sapere ed il saper fare dell’operatore sociale?

Si può definire l’operatore sociale come persona con un background personale e culturale, con bisogni ed un sistema valoriale di riferimento, che vive secondo il suo stile mettendo al servizio delle persone la propria competenza.

Un professionista che lavora nella relazione d’aiuto in cui riveste il ruolo di co-protagonista. L’operatore media tra sé, altro, struttura e territorio. Il lavoro relazionale richiede una buona conoscenza di sé, dei propri valori, del proprio funzionamento in termini personali ed interpersonali e delle proprie risorse e criticità.

Chi si avvicina al ruolo dell’operatore sociale, deve essere interessato all’altro, come un antropologo, il motore che lo deve muovere è la curiosità, la voglia, nell’ottica della condivisione, di “lavorare con” piuttosto che di “lavorare per”; è un esperto di metodo che si realizza nella relazione piuttosto che nell’utilizzo di tecniche relazionali, è in grado di restare aderente alla realtà dell’altro ed ha chiaro che i tempi di reazione variano da persona a persona.

Altro concetto primario è la responsabilità: l’operatore sociale è responsabile della comprensione e corretta analisi della domanda, della concretizzazione una relazione proficua, della creazione un clima accogliente.

È corresponsabile dell’attuazione del processo di cambiamento dell’utente.

La sfida professionale irrinunciabile è la considerazione dell’operatore sociale come osservatore co-protagonista del percorso relazionale, parte integrante del sistema in cui si trova ad agire, non più considerato come unico esperto, portatore di tecnicità e saperi teorici, ma persona con una propria storia e biografia; la relazione offerta non è più gerarchica e verticale, ma diviene orizzontale conducendo il processo di aiuto ad un incontro dialogico compartecipato:

“Mostravo le mie emozioni, fino, talvolta, al pianto. Chiamavo questo mio modo di lavorare “terapia sentimentale” (…) cominciai a cercare nuove strade per far sentire i clienti a proprio agio. Quando era il caso raccontavo loro storie della mia vita… se mi sentivo in difficoltà, specialmente se qualche mio problema personale sembrava intrufolarsi nel percorso comune, ne parlavo apertamente, e spesso ottenendo buoni risultati” (Hoffman 1992, trad. it. p.21).