Odontofobia, quando il dentista fa paura: dal curare al prendersi cura

L’articolo nasce dal bisogno di identificare risposte più soddisfacenti per relazionarsi con pazienti odontoiatrici emotivamente delicati, spesso odontofobici, senz’altro vulnerabili sul piano psicologico. Chiedersi quale sia la modalità relazionale più efficace significa uscire da un approccio che prevede solo intuizione e buon senso come unici elementi guida, per approfondire, invece, gli elementi di interventi comunicativi consapevoli, in sintonia con la natura psicologica del paziente, al fine di rendere il rapporto di cura profondo e personale. Il successo di un intervento terapeutico non dipende solo da fattori medici in senso stretto, ma anche, e forse soprattutto, dall’espressione della qualità della relazione umana tra quel medico e quel paziente. Dal curare, al prendersi cura, quindi, il che presuppone la massima attenzione agli scambi relazionali e comunicativi

Odontofobia, quando il dentista fa paura: dal curare al prendersi cura

La seduta dall’odontoiatra è un appuntamento per molti sgradevole. Il 70% della popolazione vive con apprensione la visita odontoiatrica, mentre il 15% è fobico, per cui evita sistematicamente il trattamento. La condizione ansiogena è connotata da fattori appartenenti alla sfera cognitiva, fisica, comportamentale e non è da considerarsi necessariamente patologica, quanto piuttosto il risultato normale di un’insieme di modificazioni fisiologiche in seguito a stimoli percepiti come “pericolosi”. La persona si predispone a livello fisico in uno “stato di allarme”, atto a incrementare o inibire alcune funzioni organiche, al fine di prepararsi con maggior prontezza agli eventi. La fobia assume, invece, connotati maggiormente legati alla sfera patologica, manifestandosi in modo più violento e portando la persona all’incapacità di fronteggiare il normale svolgersi degli eventi quotidiani.

 

In situazioni d’allarme la pupilla si dilata per aumentare la percezione visiva, certi organi annullano le loro funzioni per risparmiare energia e aumentare l’irrorazione dei muscoli, il cuore aumenta la sua attività cardiaca per ossigenare i muscoli, la frequenza respiratoria si amplifica per incamerare un maggiore volume d’aria, le funzioni gastriche ed epatiche, la salivazione diminuiscono, gli sfinteri si chiudono. Tali sintomi possono arrivare a disturbare l’attività sociale della persona, rendendone faticose le interazioni interpersonali.

 

Frequentemente i disturbi d’ansia che interessano l’ambito odontoiatrico fanno riferimento a paure generalizzate in risposta a stimoli specifici. L’ansia da riunito si manifesta in modo eclatante durante particolari trattamenti quali l’anestesia, l’uso dell’ago, l’utilizzo del trapano, arrivando perfino ad impedire al paziente di raggiungere lo studio dentistico. La paura nasce dalla costruzione di un’immagine mentale di un dato evento-stimolo nettamente sproporzionata rispetto alla realtà, che fa esplodere una reazione di terrore. Quando tale paura permane nel tempo, si fa irrazionale, è priva di qualsiasi aderenza ad un appropriato esame di realtà ed è accompagnata da un bisogno compulsivo di evitare lo stimolo è possibile parlare di vera fobia.

 

Secondo la struttura di personalità dell’approccio analitico-transazionale, nei casi di fobia solo lo stato dell’Io Bambino è energizzato, escludendo sia lo stato dell’Io Genitore, sia lo stato dell’Io Adulto (patologia dell’esclusione). Ciò significa che l’“esame di realtà”, a cui lo stato dell’Io Adulto è preposto, viene totalmente inibito e con esso annullate valutazioni cognitive realistiche. La persona scambia per dati di realtà illusioni e credenze magiche. Nei casi meno gravi, lo stato dell’Io Adulto non è escluso ma solo “contaminato” dalle paure tipiche dello stato dell’Io Bambino (patologia della contaminazione) e comunque rimane mal funzionante.

 

L’odontofobico riconosce la propria incapacità di affrontare situazioni normali per altri, per cui il vissuto che lo accompagna è di profonda inadeguatezza. La condizione di sfiducia può riguardare sia se stesso (“io sono –, gli altri sono +), sia altri (“io sono –, gli altri sono –”). Inoltre, il fobico è diffidente per natura e trova la conferma delle proprie ansie nell’esperienza quotidiana, dove ogni piccolo episodio viene riletto alla luce del proprio quadro di riferimento interno quale conferma delle proprie insicurezze. Le esperienze positive, prive di effetti negativi, vengono invece facilmente sottovalutate e dimenticate. È inutile tentare di convincerlo dell’infondatezza delle sue paure, poiché egli ne è consapevole. Solo in un secondo momento, lontano dallo stimolo e ormai tranquillizzatosi, questi sarà forse in grado di ammettere la reale inesistenza del pericolo.

 

L’individuazione dello stimolo scatenante da parte dell’odontoiatra è il primo passo per la messa in atto dei comportamenti di prevenzione. Ogni evento fobico è mosso da un corollario di stimoli neutri, quali odori, suoni, sapori, luoghi, riunito, mascherine, camice ecc., che si identificano come forma di condizionamento classico. La persona è portata inconsciamente a collegare lo stimolo neutro alla minaccia della situazione che sta vivendo: non è lo stimolo reale del dolore che provoca paura, quanto piuttosto gli elementi neutri.

 

Naturalmente, il ripetersi di eventi traumatici nel medesimo contesto porta la persona a rafforzare queste credenze, incrementando il disturbo al punto tale da entrare, a volte, in uno stato ansiogeno al solo suono della voce dell’odontoiatra. Quanto più la persona si sottrae all’elemento letto come “nocivo”, tanto piu’ la componente cognitiva raccoglie elementi a favore di tale atteggiamento. Ne consegue che la persona tenda ad accreditare le sue convinzioni circa l’effettiva pericolosità degli eventi, talvolta colpevolizzando gli operatori, talvolta se stesso, arrivando a percepirsi inadeguato per tutte le situazioni della vita ed innescando, così, problematiche di tipo depressivo.

 

Cosa fare, dunque, di fronte ad un paziente odontofobico? Lo studio ha la sua importanza: l’ingresso può essere abbellito con quadri colorati, meglio se raffiguranti soggetti che ricordino elementi di serenità. La sala operativa può essere ornata da immagini a patto che non suscitino impressioni negative. I camici degli operatori devono essere di colori tenui (bianco, colori pastello), evitando il rosso, che potrebbe ricordare inconsciamente il sangue. La musica è ben accetta se utilizzata a basso volume (es.: classica, jazz, leggera, new-age), perché rende l’ambiente più gradevole e distrae dal rumore degli strumenti in funzione. L’odore dei materiali utilizzati può essere mascherato con profumi delicati, specie nella sala d’attesa.

 

Gli appuntamenti vanno fissati in orari appropriati, evitando che l’odontofobico attenda in sala d’aspetto, dove si potrebbe caricare d’ansia. Il primo momento di interazione costituisce il primo passo della fidelizzazione del paziente e dovrebbe essere svolto lontano dal riunito odontoiatrico per non dare l’impressione dell’imminenza del momento operatorio, a favore di una maggiore tranquillità. È sicuramente utile applicare una raccolta preliminare di dati scritti, a cui deve seguire una minuziosa attenzione nei confronti dei comportamenti del paziente. Sin dalla sala d’attesa, la persona addetta al ricevimento può rilevare stati ansiosi (in termini analitici-transazionali, il paziente è nello stato dell’Io Bambino Adattato, segnalato da gesti quali l’accomodarsi ma non riuscire a stare fermi sulla sedia, il continuo tamburellare delle dita, lo sfogliare nervosamente una rivista, il cambiare continuamente posizione, il sobbalzare ai normali rumori presenti in uno studio dentistico, il porre continuamente quesiti sul proprio appuntamento, una eccessiva sudorazione, testa bassa, spalle curve, voce spezzata), in modo da segnalare all’operatore sanitario la necessità di attuare le strategie di controllo dell’ansia.

 

A parte tecniche specifiche come la desensibilizzazione sistematica e il modeling, che richiedono la consulenza di uno specialista psicologo, l’odontoitra, l’igienista e gli altri operatori dello studio possono adottare alcune modalità relazionali che, se non risolutive del problema, sono certamente utili per la sua gestione. L’Analisi Transazionale permette un lavoro di autoconsapevolezza ed implementazione di competenze psico-sociali particolarmente utile. Il concetto di contrattualità, caro alla pratica psicologica analitica-transazionale, è un buon punto di partenza. Atteggiamento contrattuale significa “vedere” l’altra persona, offrire appoggio ed empatia, entrare in una dinamica fatta di comunicazione profonda con ciò che l’altro è, così da conoscere, capire ed incontrare i bisogni altrui. Ciò vale tanto più per un paziente odontofobico, il cui bisogno di non subire umiliazioni e di essere compreso, nonché rispettato, è fondamentale per poter abbassare le difese.

 

Il counselling per la gestione dell’ansia è basato sull’utilizzo integrato di vari elementi propri della comunicazione efficace e sulla capacità dell’operatore di migliorare nel paziente la consapevolezza e l’espressione delle sue percezioni emotive. Questa è un’operazione utile a evitare forme di svalutazione dei suoi bisogni o agire per “dovere” alcuni comportamenti, che alla lunga causano disagio. La consapevolezza delle proprie attitudini comportamentali in situazione di scomodità e la conseguente ricerca di opzioni costituiscono senza dubbio una possibilità concreta di gestione dello stress.

 

Il primo passo consiste nella “valutazione del problema”: operatore e paziente, seduti uno di fronte all’altro, sollevano le problematiche relative all’ansia odontoiatrica. A tal proposito la raccolta anamnestica metterà in evidenza precedenti esperienze nell’ambito odontoiatrico/sanitario, faciliterà la descrizione degli stimoli ansiogeni, metterà in luce la frequenza degli episodi ansiosi, evidenzierà la gradazione d’intensità soggettiva del fenomeno. Il secondo passo consiste nella “descrizione del problema”: la fobia deve essere definita con precisione, circoscrivendo al massimo l’elemento ansiogeno. Il paziente va invitato a verbalizzare i pericoli immaginati, in quanto costituiscono un ruolo importante nella costruzione delle sue paure; le informazione inesatte vanno corrette, cosicché egli possa acquisire fiducia nell’operatore; il problema va scomposto in atti piu’ semplici. Il terzo passo comporta la “pianificazione delle strategie”: una volta verificate le precedenti strategie tentate dal paziente, vanno presentate strategie sostitutive e selezionata quella più opportuna.

 

La chiusura del processo di counselling va preceduta dalla descrizione quanto più minuziosa possibile, senza però dettagli che possano incrementare lo stato di allarme, delle “operazioni“ che andranno ad  interessare il paziente. Ciò gli permette di visualizzare in anticipo gli eventi possibili e quindi prepararsi psicologicamente all’esperienza con la consapevolezza di non affrontare situazioni indefinite. Successivamente, si passerà all’azione senza trascurare la verifica dell’andamento del trattamento, così da contenere ogni momento d’eccessiva paura.

 

Il linguaggio utilizzato deve essere semplice e chiaro, privo di termini come “male, dolore, paura”, sostituibili con “fastidio, timore, emozione”. Dilungarsi in spiegazioni troppo minuziose è fuori luogo, esattamente come mentire (es. “non sentirà assolutamente niente quando le farò la puntura!”), minimizzare le emozioni (es. “ma no, non dica bugie, non sta sentendo niente! ”), svalutare le paure (es. “su signora, non faccia la bambina!). Al contrario, transazioni di “riflesso del sentimento” (es: “la vedo preoccupata, signora”, “sento che è agitata, è così?”), seguite da “transazioni di sostegno” (es. “non si preoccupi… coraggio, abbiamo quasi finito… bene così… è stata molto coraggiosa”), segnalano attenzione ed empatia, invitando il paziente ad esplicitare le emozioni del momento. Anche riformulare quanto il paziente verbalizza può essere utile. Scopo della “riformulazione” è sia fissare quanto emerso, sia far sentire il paziente ascoltato e compreso, aiutandolo a proseguire nell’esposizione di quanto prova (es. “mi sta dicendo che prova ansia quando…”). 

 

Queste sono buone modalità per offrire al paziente il “permesso” di essere se stesso, dimostrandogli che le sue difficoltà troveranno accoglienza senza giudizio alcuno. Una relazione efficace dal punto di vista terapeutico è quella in cui il paziente si sente compreso, seguito con attenzione, è quella in cui sperimenta fiducia, rispetto ed impegno. Solo all’interno di una relazione basata su calore ed empatia, questi può soddisfare il bisogno di sicurezza, di affidamento, di accettazione, di percepirsi unico e soprattutto di sentirsi preso in cura e non solo di essere curato. Il principio è quello di un intervento sanitario che pone in primo piano la natura etica dello scambio medico-paziente, il sentimento del rispetto reciproco, il concetto di relazione non paternalistica, ma reciproca, la compassione della sofferenza.

 

Dal momento che la personalità umana è composta da emozionalità e da razionalità, è impensabile non intervenire con metodiche d’approccio emotivo, soprattutto quando si ha a che fare con le paure, che sono pura espressione dell’emotività: accettazione non giudicante, mutua partecipazione, empatia, apertura, accoglienza favoriscono la costruzione di una relazione dove il paziente viene trattato nella sua interezza.

 

Si ringrazia la Dott.ssa Martina Gangale, igienista dentale, che ha condotto gli studi in materia di odontofobia, rendendo possibile e partecipando alla stesura di questo elaborato.