Routine quotidiane: trappola o salvezza per la mente

Avere una routine quotidiana è rassicurante e in certi casi protettivo per la mente, sia individuale che organizzativa. Tuttavia gli eventi esterni ci confrontano con continui cambiamenti a cui siamo chiamati ad adattarci tramite la nostra flessibilità cognitiva. Una capacità che a quanto pare le scimmie rhesus e i topi mettono in atto più prontamente di noi!

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Dei grandi leader, inventori e innovatori si sottolinea sempre la genialità, la creatività e l’elevata capacità di individuare nuove soluzioni, nuovi percorsi per risolvere i problemi e sfruttare i cambiamenti a proprio vantaggio. Non sembra essere così per la maggior parte degli esseri umani che, stando ad alcuni studi, sembrerebbero molto più attaccati alle proprie routine quotidiane!

 

Routine e flessibilità cognitiva

In tutte le situazioni della vita, dalle più alle meno ordinarie, ci confrontiamo continuamente con piccoli e grandi cambiamenti che ci costringono a modificare, in tutto o in parte, le nostre routine quotidiane


Possiamo fare questo grazie alla nostra flessibilità cognitiva, un’abilità fondamentale per la nostra sopravvivenza che ci consente di analizzare gli stimoli provenienti da un dato contesto e di modificare, ove richiesto, la strategia di azione adottata fino a quel momento in base alle nuove informazioni. In altre parole, la flessibilità cognitiva ci consente di modificare “in corsa” il nostro piano di azione rispondendo a quelli che sono i cambiamenti nell’ambiente intorno a noi. 


Questa capacità, non esclusiva della specie umana come vedremo, è mediata dal talamo e consente di ridefinire le strategie di azione necessarie per raggiungere un certo obiettivo (Rikhye, 2018). Mai dire dunque che una data routine può essere definita una volta per tutte.

 

Umani e scimmie antropomorfe a confronto

A quanto pare tuttavia, nonostante la flessibilità cognitiva rappresenti un vantaggio evolutivo non indifferente, gli esseri umani sarebbero attaccati alle loro abitudini e tenderebbero a privilegiare le proprie routine anche a volte a dispetto delle evidenze! Uno studio di Watzek et al. (2019) ha posto a confronto il comportamento abitudinario degli esseri umani con quello delle scimmie cappuccine e delle scimmie rhesus.


A tutti i “soggetti” reclutati per l’esperimento è stata presentata una sequenza di passaggi che, una volta eseguita, portavano ad una ricompensa. Dopo che scimmie ed umani avevano appreso a mettere in atto tale sequenza (e si erano, come dire, “abituati” ad essa), i nostri ricercatori hanno mostrato loro la possibilità di adottare una “scorciatoia”, una strategia alternativa decisamente più efficiente.

Ebbene: mentre il 100% dei primati non umani finiva per adottare il nuovo approccio, il 61%% degli umani continuava a utilizzare la routine già appresa invece di seguire l’alternativa proposta, neanche dopo aver osservato in video un'altra persona metterla in pratica!
 

Gli umani sono attaccati alla routine?

La nostra specie dunque non sembra uscirne proprio a testa alta: sembra che una volta imparato qualcosa, appresa una routine, ci atteniamo ad essa anche se veniamo a conoscenza di un approccio più semplice ed efficace, sottolinea Jennifer Verdolin. In altre parole: noi esseri umani possiamo essere straordinariamente resistenti ai cambiamenti.


Basti pensare a quello che accade in molte realtà aziendali pubbliche e private quando vengono fatte notare delle “falle”, dei risvolti controproducenti di alcune routine o protocolli ben consolidati: “si è sempre fatto così”! Questa sconcertante risposta è più comune di quanto non si creda e rivela tutta la resistenza che gli esseri umani hanno ad adattarsi ai cambiamenti, nonostante i vantaggi evolutivi che questo può comportare per loro. Perché accade questo?

 


La “fatica” di abbandonare gli automatismi

Sicuramente abbandonare la vecchia routine per cercare nuove strade richiede un certo grado di fatica mentale: smettere di dare le cose per scontate, smettere di affidarsi agli automatismi comportamentali e iniziare a porsi domande, analizzare la situazione per individuare nuove soluzioni. Se da un lato questo può essere un processo creativo e stimolante, dall’altro può apparire cognitivamente piuttosto “costoso”, specie a coloro che si sentano inseriti in un contesto (lavorativo ad esempio) “garantito”, con mansioni fisse e scontate o nel quale viene data scarsa importanza all’iniziativa individuale.


Pensiamo ad esempio ad un contesto altamente burocratizzato, quale può essere una qualsiasi Pubblica Amministrazione o contesto sanitario del nostro Paese. Non sono purtroppo così rare le notizie in cui in tali ambienti le routine sembrano venir applicate acriticamente, automaticamente, senza essere capaci di modificarle neanche quando non fare questo implica mettere in pericolo la vita altrui. Ha fatto piuttosto scalpore, ad esempio, un servizio de Le Iene riguardante un anziano signore della provincia di Torino è morto al pronto soccorso, nell’indifferenza generale (di medici e pazienti in attesa) dopo essere stato scambiato per un clochard (come se questo giustificasse in qualche modo un’omissione di soccorso…).

 


Se affidarsi alla routine significa smettere di essere….umani!

Perché avvengono episodi come quello sopra ricordato? Perché, in alcune circostanze, gli esseri umani, in possesso di un cervello così sofisticato e potenzialmente in grado di adottare una flessibilità cognitiva straordinaria, finiscono col perdersi in un bicchiere d’acqua e, in onore di una routine automatizzata, ignorare ciò che è evidente davanti al loro naso?


Identificarsi con una routine e andare “in automatico” porta a considerare gli altri e sé stessi come oggetti. Questo meccanismo di oggettivazione, infatti riguarda molto spesso tanto le vittime quanto i “carnefici”. Considerarsi semplici pezzi di un ingranaggio burocratico e non vedere che quel paziente in sala d’aspetto è una persona che ha bisogno di soccorso anche se non sa chiederlo nella modalità attesa… Ma anche, in termini apparentemente più prosaici, ritenere “normale” vedere pezzi di corpi femminili photoshoppati e proposti nelle immagini pubblicitarie a mo’ di prodotti (e non persone) interiorizzando un “modello” in base al quale si finisce per auto-oggettivare sé stessi (inseguendo diete e rimedi estetici per modellare il proprio corpo come fosse appunto un oggetto e non l’espressione unica della nostra persona).


La routine è qualcosa che può dare sicurezza e organizzazione alla mente umana ma che può rivelarsi fatale quando affidarsi alle abitudini, agli automatismi, implica smettere di pensare.


In modi non dissimili psicologicamente, anche se ben più tragici e psicopatologici, ragionavano i gerarchi nazisti e buona parte di coloro che all’epoca collusero con quanto avveniva:


“Prima di Auschwitz (o dei gulag sovietici, o di Hiroshima…) non sapevamo quanto impressionante e terribile potesse essere la varietà del male commesso dagli uomini […]. In quel ‘prima’ ormai distante e difficilmente immaginabile non sapevamo nemmeno – e tutt’ora siamo riluttanti o addirittura rifiutiamo di ammettere, sebbene la conoscenza sia ormai abbondantemente disponibile – che la logica della vita moderna amplia radicalmente, fino a una scala inaudita, il bacino di reclutamento dei potenziali malvagi. […] La lezione più devastante di Auschwitz, dei gulag e di Hiroshima non è che potremmo anche noi essere rinchiusi dietro il filo spinato o nelle camere a gas, ma che, date le giuste condizioni, potremmo stare di guardia o spruzzare nelle condutture cristalli di sale bianchi; la lezione non è che una bomba atomica potrebbe abbattersi proprio su di noi, ma che, date le giuste condizioni, potremmo essere noi a lanciarla sulla testa degli altri.” (Bauman, 2006, pp. 83-84).

 


Bibliografia

Bauman, Z. (2006), Paura liquida, trad. it. Laterza, Bari, 2009.
Rikhye R.V., Gilra A., e Halassa M.M. (2018). Thalamic regulation of switching between cortical representations enables cognitive flexibility. Nature Neuroscience, 1: 1753–1763.
Watzek J., Pope S.M. e Brosnan S.F. Capuchin and rhesus monkeys but not humans show cognitive flexibility in an optional-switch task. Scientific Reports, 2019; 9 (1).