Cosa fa il Welfare manager

Il riconoscimento della figura del welfare manager è piuttosto recente. In Italia, infatti, di benessere in azienda non si parla da molto. Ma di cosa si occupa questa figura professionale dalle complesse e variegate skill? E come persegue l'obiettivo di portare la felicità tra i colleghi? Ne abbiamo parlato con l'esperta Elisabetta Dallavalle, autrice di "Tutta questione di benessere".

Cosa fa il Welfare manager

Di Rosy Matrangolo

Soddisfazione, produttività, conciliazione. Il tempo che trascorriamo sul posto di lavoro si intreccia inevitabilmente con i sentimenti che alimentano o, al contrario, soffocano il nostro bisogno di felicità personale

Nelle aziende il tema del benessere dei dipendenti è - o dovrebbe - essere cruciale, anche in termini di obiettivi di sviluppo. Per questo, finalmente, anche in Italia si ta facendo il largo il riconoscimento della figura del Welfare manager. Ne abbiamo parlato con Elisabetta Dallavalle, autrice del volume "Tutta questione di benessere", pubblicato per Licosia.

Cosa fa il Welfare manager e quanto è radicata la sua figura nell'impresa italiana? Tu, in particolare, di cosa ti occupi?

Il decreto 7656 del 02/08/16 della Regione Lombardia definisce il welfare manager (vedi nota 1) come un professionista che opera nel campo delle politiche del lavoro progettando, gestendo, monitorando e valutando i programmi di welfare sia a livello aziendale che territoriale. Il welfare manager svolge azioni di supporto ai responsabili della gestione delle risorse umane in materia di welfare, smart working e lavoro agile anche durante le fasi di contrattualizzazione, negoziazione e contrattazione sindacale.

Il decreto continua affermando che, in particolare, il welfare manager è in grado di operare progettando, gestendo e monitorando programmi di formazione specialistica e attività personalizzate di counseling e di supporto alle carriere professionali. Affianca le funzioni aziendali preposte alla adozione, alla attuazione e alla gestione rispettivamente delle misure in materia di welfare aziendale e di implementazione, di sperimentazioni nell’ambito dello smart working e del lavoro agile. 

Offre supporto al management anche tramite forme di consulenza specialistica sugli interventi da adottare in relazione alla stima e alla valutazione del ROI (return on investment) dei programmi. È in grado, infine, di gestire i rapporti di lavoro anche dal punto di vista giuridico e contrattuale scrivendo e negoziando contratti individuali e collettivi di lavoro agili e smart. 

Secondo lo stesso decreto, inoltre, il profilo professionale trova collocazione presso le direzioni del personale delle aziende interessate alla moderna organizzazione del lavoro, le società di consulenza strategica e organizzativa, le società che erogano consulenza e servizi in materia di welfare aziendale, le amministrazioni pubbliche che coordinano gli interventi sul welfare e sul lavoro a distanza, gli enti di istruzione e formazione professionali, gli operatori accreditati ai servizi al lavoro, i centri per l’impiego, gli studi di consulenza del lavoro.

Grande appassionata di relazioni umane, dopo un periodo passato a districarmi tra provette, alambicchi e microscopi, mi sono immersa per un periodo nei numeri. La passione per l’altro, la propensione sociale, la spiccata capacità di attivarmi e impegnarmi, il mettermi al servizio, in ascolto, i forti valori morali e personali mi hanno fatto scegliere la strada che ha contraddistinto la mia crescita personale e professionale nell’ambito delle risorse umane nel quale ho avuto modo di distinguermi arrivando a occuparmi del benessere della persona nell’organizzazione aziendale. 

Tra i riconoscimenti ricevuti, la certificazione a Welfare Manager, che ho ricevuto tra i primi, in Italia, dalla Regione Lombardia. Sono membro del comitato scientifico Este Edizioni, progetto WellFeel, e referente interno per la Certificazione Family Audit. Fervida sostenitrice del dialogo tra le persone che prende origine dalle passioni, dalle emozioni attraverso le interconnessioni territoriali, tra pubblico e privato, AIDP Lombardia mi ha affidato la guida del neonato “AIDP Benessere Lab”, un luogo di incontro fisico/virtuale di aggregazione con la funzione sociale di maturazione e crescita umana attraverso gli ideali del BenEssere individuale e collettivo. Un Laboratorio di idee e di esperienze, una fucina dentro la quale progettare e orientare il dibattito più approfondito sugli ideali del BenEssere individuale e collettivo.

Quella del welfare manager è una figura con caratteristiche e formazione eterogenee e multidisciplinari: alle competenze tecniche (giuridiche, fiscali, economiche e amministrative) si affiancano anche competenze umanistiche, in particolare legate alle discipline filosofiche, sociologiche, psicologiche e pedagogiche. Data l’eterogeneità della figura, pertanto, si rendono fondamentali soft skills, in particolare competenze relazionali, di problem solving e di comunicazione interpersonale.

La vera sfida di un responsabile welfare è dunque quella di possedere conoscenze e competenze che necessiterebbero di un percorso formativo ad hoc che, a oggi, in Italia, ancora non esiste:

Rispetto alla nuova professione del welfare manager mi sono tanto impegnata per promuovere e diffondere la presenza di questa figura professionale nel panorama italiano, dove notavo che non esisteva una definizione riconosciuta e condivisa del profilo professionale legato al welfare manager (non era neanche presente nei repertori delle professioni ISTAT/ISFOL) e dove non esistevano nemmeno precisi “confini” in grado di delimitare gli ambiti di intervento operativo. Ho lavorato perché ci fosse una certificazione che permettesse di attestare la mia professione e le competenze acquisite in ambito lavorativo.

Il mio impegno con Regione Lombardia ha fatto in modo che le competenze acquisite fossero riconosciute e istituzionalizzate dall’Attestato di Competenza di Welfare Manager (vedi nota 2) assegnato rispetto alla legge regionale Regione Lombardia 19/07.

In particolare, le competenze riconosciute e richieste a un welfare Manager oggi sono:

 

  1. progettare e gestire programmi di welfare a livello nazionale e territoriale;
  2. supportare i responsabili della gestione del personale in materia di welfare, smart working e lavoro agile durante le fasi di contrattualizzazione, negoziazione e contrattazione sindacale;
  3. monitorare e valutare programmi di welfare a livello aziendale e territoriale.

 

Il mio auspicio è quindi che l’impegno profuso per raggiungere l’obiettivo di ottenere questa certificazione da parte della Regione Lombardia possa estendersi anche alle altre Regioni italiane, fino a essere riconosciuto a livello nazionale.

Nota 1. Welfare manager (24.67): livello EQF 6; classificazione nazionale delle professioni ISTAT 2.5.1.3 - Specialisti di gestione e sviluppo del personale e dell’organizzazione del lavoro; classificazione nazionale delle attività economiche ATECO 701 - Attività di direzione aziendale; Classificazione Internazionale delle Professioni ISCO - 2423 – Specialisti di personale e sviluppo di carriera.

Nota 2. L’Attestato di Competenza di Welfare Manager, rilasciato ai sensi della legge regionale n. 19/2007, è stato conferito dall’Agenzia per la formazione, l’orientamento e il lavoro Sud Milano, con sede a San Donato Milanese (MI), il 15 giugno 2017.

 

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Benessere e felicità in azienda. In che modo le aziende devono occuparsi di "felicità"? A quale definizione di felicità si può fare riferimento parlando di contesto professionale?

L’idea di mettere su carta quanto appreso in questi anni mi è venuta guardando le mie figlie Francesca e Giulia, ormai quasi adolescenti. Ho pensato che il mio patrimonio di conoscenze in materia di Risorse umane dovesse parlare principalmente alle nuove generazioni, in modo che anche loro possano cominciare presto ad agire per il benessere della persona. D’altronde “la scuola, a suo modo, è un sistema organizzativo e mi piace pensare che i ragazzi possano iniziare a riflettere e a discutere questo tema fin da giovanissimi; è importante allenarli e orientarli verso il tema dello stare bene con se stessi e con gli altri.

Tutta questione di BenEssere è un lavoro a più voci sul tema del welfare aziendale, ma è innanzitutto un modo di vivere: ho deciso di dar vita a questo progetto in quanto cittadina che nel suo piccolo vuole dare un contributo per rendere il mondo un posto migliore. Un obiettivo, pienamente condiviso da coloro che hanno contribuito, attraverso alcuni interventi, ad animare questa discussione su carta: loro, come me, sono mossi dalle stesse motivazioni e sono tutte persone con cui ho condiviso parte del mio cammino, che hanno la mia stessa visione della vita e del lavoro e che hanno messo tantissimo entusiasmo in questo progetto.

Come ci insegna Stefano Zamagni, padre dell’Economia civile, è sempre di più fondamentale che le organizzazioni aziendali si occupino di felicità, il modo in cui è organizzata l’attività produttiva esercita forti ripercussioni sulla felicità. Non è dunque vero, come da sempre insegna la teoria economica mainstream, che il lavoratore è unicamente interessato alla remunerazione che riesce a conseguire. Il che significa che la felicità c’entra non solo con la sfera del consumo – cioè con i beni che l’ottenimento di un certo reddito consente di acquisire e consumare – ma anche con quella della produzione.

L’autoasfissia organizzativa di certi luoghi di lavoro è all’origine di dissonanze cognitive sviluppate dai lavoratori, le quali finiscono per alterare le relazioni sociali degli stessi.

Ogniqualvolta l’agire non è vissuto come propria autodeterminazione e quindi come propria auto-realizzazione, esso cessa di essere umano. Quando il lavoro non è più espressivo della persona, perché essa non comprende più il senso di ciò che sta facendo, il lavoro diventa fonte di infelicità. Un’ennesima conferma empirica, dal fronte delle neuroscienze, ci viene dal recente volume di R.H. Lustig (The Hacking of the American Mind, Avery, New York, 2017) che contrappone il piacere immediato (ad esempio, lo stipendio percepito) alla felicità. La ricerca del piacere allontana la felicità come appagamento, perché il piacere è un prendere, mentre alla felicità si arriva con il dare… “

Il volume vuole essere una “finestra” aperta sull’agire il BenEssere e la Felicità delle persone. Nasce dalla volontà di rinforzare un orientamento culturale, partendo dall’interno del movimento Welfare Aziendale attualmente in atto in Italia e porre nuovamente l’attenzione verso il bene relazionale.

Un orientamento culturale che si rende particolarmente necessario in virtù di questi motivi fondamentali:

 

  •  perché coglie i trend sociali del momento e consente di integrarli nei processi aziendali in una logica win-win;
  •  innalza e non svaluta il valore di un progetto che ha come fine il BenEssere delle persone che non si può quindi limitare, come alcune spinte attualmente in atto sembrano indicare, alla scelta da uno scaffale virtuale del prodotto più utile in un dato momento;
  • si pone come agente culturale a partire dalle giovani generazioni fino ad arrivare ai ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado, in quanto serbatoio di future donne e futuri uomini impegnati anch’essi a contribuire al miglioramento della società.

 

Una ulteriore importante opportunità è rappresentata dall’esistenza di un forte movimento sul Welfare Aziendale anche a livello continentale e buone pratiche italiane che possono essere presentate in sede di Parlamento Europeo e diventare un punto di riferimento anche a livello transnazionale. Il libro-progetto ha finalità eminentemente culturali.

Il libro si propone, infine, come luogo di incontro e di aggregazione assolvendo alla funzione sociale di maturazione e crescita umana, attraverso gli ideali del BenEssere individuale e collettivo.

L’ambizione è anche quella di sostenere un cambio di paradigma per una reale presa di consapevolezza e attivazione di nuovi agenti di BenEssere e Felicità.

Il desiderio ultimo è quello di diffondere:

• la cultura del BenEssere personale, quale conquista del singolo individuo e della società tutta;

• ampliare all’interno della persona il livello di consapevolezza, la cultura del rispetto e della gentilezza, così come la capacità di ricorrere a proprie risorse di resilienza, il tutto attraverso contatti fra persone, enti e associazioni;

• allargare gli orizzonti di tutte le persone che studiano e che lavorano, affinché si diffonda una cultura della cura della relazione, come un bene per la persona e un valore per le

organizzazioni e per la società;

• proporsi come luogo di incontro e di aggregazione nel nome di interessi culturali assolvendo alla funzione di maturazione e crescita personale e professionale, attraverso l'ideale dell'educazione permanente;

• porsi come punto di riferimento per coloro che vogliano contribuire, anche in piccola parte, alla crescita della  propria realtà di lavoro e di vita;

• porsi come punto di riferimento in un’ottica di valorizzazione dei comportamenti attivi delle persone.

 

Smart working. Ne parlano tutti, ma cosa significa realmente? Quali sono, secondo lei, le priorità (o le parole d'ordine) di un lavoro davvero flessibile (immaginando che queste possano variare da settore a settore professionale)?

Ora che in Italia è Legge, all’interno della legge 81 del 22 maggio 2017, viene data una definizione di lavoro agile da intendersi come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

Per intenderci, un vero e proprio modo di lavorare, di intendere il lavoro dove la persona può partecipare ai processi decisionali ed essere essa stessa parte di un ambiente imprenditivo dove la fiducia sta alla base del dialogo organizzativo. Va da sé che l’introduzione di politiche di Smart Working o Lavoro Agile vada di pari passo con l’introduzione di processi di change management.

Le persone sono messe al centro e sono portate a essere responsabili del proprio tempo lavorativo. Anche lo spazio evolve, le aree lavorative o i luoghi di lavoro, anche al di fuori dell’azienda, sono vissuti in autonomia e sulla base delle singole esigenze della propria agenda giornaliera e/o settimanale e secondo gli obiettivi di Team e di funzione da raggiungere.

E’ evidente il cambio culturale innescato in Italia che deve continuamente essere sostenuto, dentro e fuori le organizzazioni perché è dimostrato che i vantaggi siano davvero per tutti, (win win win 3 volte) è vincente per i benefici che non solo esclusivi delle organizzazioni, in termini di produttività, ma sono anche della persona, in termini di BenEssere e della comunità tutta in termini di benifici per l’ambiente.

(Fonte Osservatorio Smart Working, Politecnico di Milano)  

 

Ci sono, al contrario, terminologie o prassi che sarebbe il caso di iniziare a eliminare dai modelli aziendali per agevolare una condizione di benessere sul lavoro?

C’è una strada per disegnare un futuro migliore, all’interno e all’esterno delle aziende. È una strada che pone il bene comune al di sopra di tutto. Ascolto e condivisione sono le basi di un nuovo welfare.

Il tema dello stare bene è molto ampio e in azienda si traduce in una serie di misure da attuare. Sicuramente si deve partire dall’ascolto, che getta le basi per fare progetti rispetto al benessere della persona: se si salta questa fase non si riesce a entrare in sintonia con l’altro né a occuparsi davvero di lui.

Un altro aspetto rilevante è “andare a braccetto con la persona, condividere, farla sentire parte integrante del progetto”. E tutto questo si traduce in un modello vincente: quando siamo soddisfatti ne gioviamo in primis noi, poi l’impresa e infine anche il sistema-Paese.

Oggi il welfare è al centro del dibattito pubblico, ma non sempre è stato così: Quando ho iniziato a occuparmi di Risorse umane, dando spazio alla vena sociale che scorre dentro di me, non se ne parlava molto, ho dovuto costruire un pezzetto alla volta la mia figura di welfare manager, che oggi è finalmente riconosciuta. E per portare avanti questo percorso ho sempre attinto alla mia personalissima cassetta degli attrezzi: sono partita dall’umiltà, un valore imprescindibile nella vita e nel lavoro, che mi ha fatto capire che non si finisce mai di imparare dalle situazioni e dalle persone che ci circondano.

Poi ho capito che anche una singola persona può fare la differenza, può mettere il suo mattoncino e contribuire, nel suo piccolo, con le sue emozioni e unicità, a creare un futuro migliore. Infine, c’è voluta una buona dose di curiosità, perché è importante restare sempre ricettivi e prendere ispirazione dagli insegnamenti. 

Strumenti, questi, che ho voluto mettere al servizio di giovani e meno giovani: questo libro è una goccia che sto mettendo nell’oceano, ma la mia età, la maturità raggiunta sul lavoro e l’essere mamma mi hanno spinto a farlo, con la speranza che un domani ci siano tante altre gocce che si vadano ad aggiungere alla mia. 

 

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