Quanto conta la capacità di "giocare" nella durata di una relazione

In psicologia anche il gioco è una cosa seria. La capacità di giocare può fare la differenza nella durata di una relazione: non si intende naturalmente solo una banale “giocosità”, ma una precisa capacità psicologica. Vediamo meglio in cosa si tratta.

Quanto conta la capacità di "giocare" nella durata di una relazione

Quanto conta la capacità di giocare nella durata di una relazione?

Beh può fare la differenza, non ci si riferisce ad una banale giocosità comportamentale.

Quanto piuttosto ad una capacità psicologica di “giocare” con l’assenza e la presenza dell’altro, percependo fiducia nel legame ma al tempo stesso la giusta distanza che consenta ad entrambi i partner di sviluppare una propria autonomia.

A questo proposito Sigmud Freud descrisse (Al di là del principio del piacere, 1920 ) un aneddoto famoso riferito all'osservazione di suo nipote Ernest, di 18 mesi: il gioco che il piccolo soleva fare e che ripeteva numerose volte non era affatto irrilevante per la sua crescita psicologica, come avrebbero confermato Autori successivi studiando la teoria dell’attaccamento.

 

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Il gioco simbolico e la costanza d’oggetto

Quello che passò alla storia come “il gioco del rocchetto” non era altro che una ripetizione, all’apparenza banale, di movenze con cui, il bambino, tenendo per il filo un rocchetto, lo faceva alternativamente scivolare oltre la sponda del suo lettino per poi ritirarlo a sé: un momento il rocchetto spariva dalla sua vista e un attimo dopo riappariva

Questa ripetizione di alternanze fra assenza e presenza rappresentava, si rese conto Freud, un modo attraverso il quale il bambino elaborava la temporanea assenza dell’oggetto (il rocchetto era psicologicamente un simbolo della madre) e la fiducia che questo sarebbe riapparso.

È in tal modo, scoprì Freud, come altri Autori dopo di lui, che il piccolo essere umano elabora una primitiva forma della “costanza d’oggetto”: la fiducia che un legame con una persona di riferimento rimane saldo anche nei momenti in cui tale figura scompare dalla vista, si sottrae alla percezione immediata dei sensi, per rimanere tuttavia come rappresentazione mentale.

Tutti i bambini elaborano queste e altre conquiste psicologiche grazie allo sviluppo cognitivo e affettivo che consente, fra le altre cose, di accedere – in un’età che va dai 18 mesi ai 2 anni - al gioco simbolico.

Quel gioco che evolverà in quella più sofisticata modalità di “far finta” che permette ai bambini di utilizzare creativamente gli oggetti per inventare storie, sganciandosi dall’immediata esperienza presente, per accedere ad un piano più creativo e immaginativo.

Che cosa c’entra il gioco del rocchetto con la durata di una relazione? Vediamo insieme…

 

Giocare per mantenere la “giusta distanza”

Il gioco del rocchetto, il gioco simbolico e la capacità del bambino di sviluppare una primitiva costanza d’oggetto (riesce per esempio a giocare anche in assenza della madre se è rassicurato dal fatto che lei si trovi nella stanza adiacente) è solo il primo passo di un percorso di crescita e sviluppo psicologico che consente, o dovrebbe consentire, ad ogni essere umano di interiorizzare un senso di sicurezza e fiducia di base utili a far sì che, nella vita adulta, ci si possa sentire legati in modo sano ad un’altra persona e percepire la sicurezza del legame anche nei momenti e nelle occasioni di distacco.

Un distacco che non è solo fisico. La vita adulta impone di venire a patti col fatto che attaccamento e separazione non sono due dimensioni in contraddizione l’una con l’altra: i nostri legami affettivi saranno più soddisfacenti e profondi se non ambiremo ad una vicinanza fusionale (quanto mai idealistica e soffocante), ma riconosceremo a noi e all’altro uno spazio di autonomia.

È all’interno di questo minimo spazio di separazione che può avvenire uno scambio profondo e autentico che arricchisca entrambi i partner.

La durata di una relazione può dipendere molto, e in maniera importante, dalla distanza che si riesce a mantenere dall’altro, pur mantenendo, al tempo stesso, la fiducia nella solidità del legame: è così che si può costruire un amore sano.

E’ il contrario dell’amore possessivo, della gelosia patologica, dei legami basati sulla violenza dove i partner spesso si trovano legati l’uno all’altro in un rapporto di dipendenza patologica dove nessuno dei due riesce a percepirsi una persona sufficientemente autonoma e salda senza il possesso dell’altro.

In questi ultimi casi, qualunque movimento di autonomia dell’altro (un’aspirazione lavorativa, un legame di amicizia intima che non contempli il partner, a volte la stessa venuta di un figlio) può essere percepito emotivamente, istintivamente come una minaccia alla propria sicurezza emotiva.

 

Non smettiamo mai di giocare…e di crescere!

Riuscire ad instaurare un rapporto di intimità profonda, un legame di fiducia con il proprio partner, pur riconoscendo e rispettando le sue aree di autonomia, il suo essere, irriducibilmente, una persona altra da sé è un punto di arrivo psicologicamente complesso e non scontato.

Rappresenta, d’altra parte anche quello che Erik Erikson riconosceva essere il compito evolutivo principale dell’età adulta: saper instaurare legami di intimità avendo definito una propria identità sufficientemente solida.

Erikson d’altra parte è passato alla storia anche per essere stato uno dei primi psicologi ad aver concettualizzato quello che chiamiamo appunto “sviluppo” non come una fase circoscritta all’infanzia e all’adolescenza, ma un processo che dura tutta una vita, dove ad ogni tappa la persona incontra sempre nuovi compiti evolutivi.

La possibilità di crescere psicologicamente e migliorarsi non si esaurisce mai dunque nel corso della vita.

Anche gli amori finiti “male”, le separazioni più deludenti possono insegnarci qualcosa se le cogliamo come occasioni di riflessione e di crescita.

In un certo senso non si smette mai di giocare a tirare il rocchetto e a riprenderlo indietro.

 

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