I funeral selfie e la negazione della morte

Si chiama "funeral selfie" l’ultima moda lanciata sui social americani e non solo. A quanto pare la tentazione di farsi un selfie non risparmia neanche i funerali: negazione della paura della morte o apologia del narcisismo dell’epoca post-moderna?

I funeral selfie e la negazione della morte

Era il lontano 2005 quando, in occasione dei funerali di Giovanni Paolo II, a Roma e in Vaticano si riversarono fiumi di pellegrini e fedeli da tutto il mondo per assistere alle esequie e onorare la salma, o almeno così credevo se non fosse che anche allora, in tempi mediaticamente non sospetti, sembra che gli affranti fedeli sgomitassero per ottenere un posto in prima fila e poter immortalare, con il proprio telefonino (all’epoca ancora non c’erano gli smartphone), la salma del Pontefice. Una sorta di santino digitale?

La faccenda assunse contorni quanto meno grotteschi eppure oggi come oggi ce ne stupiremmo molto meno o forse quasi per niente, oggi che i funeral selfie sono moda negli Stati Uniti e non solo: Immortalarsi al funerale di un amico o un parente – magari con il defunto o la bara sullo sfondo – e poi condividere e postare sui social! Questo e altro ancora ai funerali del terzo millennio.

 

I funeral selfie

Sembra che caposcuola di questa macabra e irriverente moda dei funeral selfie sia stato lo stesso Barack Obama quando, ai funerali di Nelson Mandela, si è fatto immortalare mentre si faceva un selfie con il premier danese Helle Thorning Schmidt e il britannico David Cameron.

Ma, facendo un giro sul web, non si fa fatica a trovare centinaia di funeral selfie: da ragazzi vestiti a lutto ma immortalati con amici e parenti nelle pose più strane ad autoscatti fatti accanto alla foto o alla bara del defunto o... al defunto stesso! Tutto a facile uso e consumo della comunità globale, tutto postato e condiviso in tempo reale sui social.

 

Se non ti fai un selfie non esisti?

Si dice da più parti, e non senza ragione, che viviamo ormai nella società del narcisismo, quella in cui se non sei mediaticamente in mostra non esisti, dove qualunque esperienza si viva, qualunque pensiero si faccia deve essere esibito e condiviso si social per poter essere legittimato e riconosciuto di una qualche importanza.

Sembra in effetti che, molto più che 5 o 10 anni fa, non si possa fare a meno di tradurre ogni evento della propria vita in un selfie, in immagini multimediali diffuse in tempo reale fra amici, colleghi e conoscenti in barba ai limiti di tempo e di spazio. Sembra, in altre parole, che le emozioni che gli eventi ci suscitano non possano essere riconosciute e tollerate in noi stessi, nella nostra dimensione personale e privata, ma debbano esser esibite e mercificate per ottenere una qualche forma di senso e significato, significato che esita, a quanto sembra, in una sorta di riconoscimento digitale e collettivo sotto forma di “like”

 

Perdita, solitudine e lutto sono fuori moda?

La morte, o meglio la sua negazione, sembra assumere contorni grotteschi e paradossali sui social network: profili Fb di persone defunte che rimangono aperti alla vista e alla frequentazione di amici e parenti, quegli stessi amici e parenti che magari non resistono alla tentazione di scattarsi un selfie al funerale della persona in questione.

Nello spazio digitale il tempo sembra perdere le sue coordinate, sembra che sia ammissibile un po’ tutto e il contrario di tutto: morire ma continuare ad essere presenti come personaggi digitali, scomparire materialmente e fisicamente dalla vista degli altri ma assumere una rinnovata visibilità sui social attraverso le foto che celebrano proprio quella scomparsa.

Grazie ai funeral selfie, il “prima” e il “dopo”, il passato e il futuro si mescolano in barba alle coordinate logiche di spazio-tempo e all’aristotelico principio di non contraddizione; le stesse caratteristiche che, secondo lo psicoanalista cileno Matte Blanco, fondavano il funzionamento dell’inconscio freudiano.

Esserci e non esserci, vivere o morire non appaiono più come categorie dicotomiche dell’esperienza. Tutto questo sembra portarci ancora una volta fuori da noi stessi, lontani dal contattare i nostri più autentici vissuti di lutto e di perdita che sembrano venir negati nel momento stesso in cui vengono apparentemente mostrati ed esibiti – ma non evidentemente vissuti – con un selfie. Un difesa mediatica dalla paura della morte o piuttosto dai vissuti di lutto e perdita ad essa associati.

Il lutto, la perdita, la solitudine del dolore richiederebbero forse il coraggio del silenzio – anche mediatico -, il rispetto dei riti collettivi – come i funerali sono – per poter “esistere” ed essere elaborati da chi resta.

 

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Immagine | "Obama Madiba Memorial" by White House/Chuck Kennedy