Omofobia: cronistoria di un termine abusato

L'articolo analizza la storia del temine omofobia delineandone gli ambiti di applicazione e di ripercussione personale, sociale e professionale.

omofobia

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Introduzione

La comunità scientifica internazionale considera l’omosessualità come una variante normale della sessualità e dell’affettività e condanna le teorie costruite sul pregiudizio antiomosessuale. Questo cambiamento di paradigma è piuttosto recente, infatti, fino alla metà degli anni ’70 le ricerche scientifiche sul tema dell’orientamento sessuale si concentrarono attorno a domande scientifiche volte a stabilire se l’omosessualità fosse una patologia, quale fosse l’eziologia, come potesse essere diagnosticata e curata. È noto come le lotte femministe e il movimento di liberazione omosessuale abbiano contribuito ad una rilettura dei fenomeni sociali, promuovendo un paradigma teorico più liberale che mette in discussione il paradigma patologizzante dell’omosessualità. Si noti che nel 1973 l’American Psychiatric Association (APA) rimosse l’omosessualità dal DSM, il manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali, e che la nascita del termine omofobia si inserisce nel fermento di quegli anni. Per comprendere il significato della parola omofobia esamineremo insieme il contesto in cui il termine è nato, quali sono stati i bisogni sociali che hanno portato alla nascita di questo concetto, se, infine, la nostra società esprime ancora questi bisogni come attuali. Metterci alla ricerca delle radici del termine omofobia, come farebbe un ispettore di polizia con il suo indiziato, ci aiuterà a comprendere meglio l’attualità di questo popolare e diffuso termine.

 

Cronistoria del termine.

Iniziamo dalla cronistoria del termine. Il termine omofobia[1] nasce circa un secolo dopo l’invenzione del termine omosessualità. Una delle prime definizioni di omofobia, contenuta nel libro di George Weinberg “Society and the Healthy Homosexual”, pubblicato per la prima volta nel 1972, è la seguente[2]:

“The fear expressed by heterosexuals of being in the presence of homosexuals, and the loathing that homosexual persons have for themselves”[3].

Qualche anno più tardi, lo psicologo clinico statunitense John Gonsiorek, preferì distinguere l’omofobia che la persona gay o lesbica prova verso sé stessa dalla più generale categoria dell’omofobia. Definì l’omofobia interiorizzata come “l’incorporazione da parte di gay e lesbiche dei pregiudizi antiomosessuali prevalenti nel mondo sociale” (Gonsiorek, 1988)[4].

Esaminiamone ora l’etimologia. Omofobia deriva dal greco homos (stesso, medesimo) e fobos (paura). Letteralmente significa “paura dello stesso”. È chiaro tuttavia che il termine “omo” è qui usato in riferimento ad omosessuale. Facciamo allora un passo indietro, per esplorare l’origine del termine “omo-sessualità”, a cui “omo-fobia” ci conduce. Omosessualità è un neologismo “impuro”, composto dal greco homos (stesso, medesimo) e dal latino sexus (sesso). Contrariamente a quanto si potrebbe credere la parola omosessualità è un termine moderno. Come apprendiamo dal lungo e vasto studio sulla psicologia del sesso, di Havelock Ellis, il termine omosessualità fu usato per la prima volta dal medico ungherese Karl Maria Benkert, nel 1869[5]. Secondo lo psichiatra americano Thomas Szasz[6] l’invenzione del termine medico omosessualità indica una “transizione dallo Stato religioso allo Stato terapeutico” e può essere contestualizzato nel più ampio processo di medicalizzazione dei fenomeni sociali del XIX secolo[7]. Fino alla metà del Novecento essere un “omosessuale” era più o meno una questione privata, che raramente, e di solito solo per motivi giuridici, si intrecciava con la dimensione pubblica. Tra omosessualità e cittadinanza non c’era alcun rapporto e la maggior parte delle persone omosessuali, più che la visibilità ricercavano la clandestinità. Di decennio in decennio, l’“omosessuale” transita della giurisdizione morale (lecito/illecito), a quella scientifica (sano/malato), a quella infine politica (soggetto di diritto/non soggetto di diritto). Rosanna Fiocchetto nel suo saggio “L’amante celeste: la distruzione scientifica della lesbica”[8], ricostruisce magistralmente il processo, che ha visto il lesbismo e l’omosessualità passare da peccato a reato, prima, e patologia poi. L’etichetta di omosessualità è spesso utilizzata ancora oggi in modo improprio, nella sua accezione patologizzante.

Torniamo ora a Weinberg e all’omofobia. Quando lo psicologo americano George Weinberg, conia il neologismo omofobia, avvia un processo che mette in discussione proprio l’eterosessualità imposta come normativa. A Weinberg va riconosciuto il merito di aver trovato una parola, omofobia, che inquadra il pregiudizio sociale basato sull’orientamento sessuale come un problema sociale. Richiamando l’attenzione della società sul pregiudizio e sullo stigma anti-omosessuale, il popolare neologismo “omofobia”  modificò radicalmente i termini del dibattito sulla questione omosessuale, spostando l’attenzione dalla “patologia omosessuale” alla “patologia di chi discrimina una persona perché omosessuale”[9]. Questo cambiamento di paradigma può essere certamente considerato uno dei primi passi nella rivendicazione delle pari opportunità e dignità delle persone gay e lesbiche.

 

Omofobia istituzionalizzata

Nella società italiana persiste una forma pericolosa di omofobia, che possiamo definire “istituzionalizzata”. Le alte gerarchie della chiesa cattolica italiana continuano a sostenere l’aspetto di valore inflessibile e pregiudiziale, ad affermare il disordine morale dell’orientamento omosessuale e ad insinuare l’esistenza di disturbo medico o psicologico[10]. La posizione della Chiesa influenza non solo l’aspetto morale ma anche l’aspetto di valore sociale e culturale. Dal punto di vista legale, lo Stato Italiano non è in grado di legiferare a favore del riconoscimento delle coppie di fatto, come il parlamento europeo sollecita[11], e persiste, invece, la mancanza di una legislazione che legittimi le coppie gay e lesbiche e ne tuteli i diritti. In questo contesto sociale discriminatorio, inoltre, esistono ancora professionisti che continuano a ritenere, più o meno esplicitamente, l’omosessualità una forma di psicopatologia e che propongono, anche qui in modo più o meno esplicito, una cura[12]. In una società in cui la conformità viene assunta come norma, nella quale vige l’eteronormatività, nessuno può considerarsi immune dal pregiudizio, ma può raggiungere, piuttosto, livelli più o meno alti di consapevolezza. Nel momento in cui, parafrasando Gadamer, non si abbia la capacità di fare i conti con i propri pregiudizi, rimettendoli in discussione ed evitando di “cristallizzarli” in forme irreversibili, il pregiudizio limita le possibilità di incontro con l’altro. Questo spiegherebbe perché le “personalità autoritarie”, rigide, insicure, che si sentono più facilmente minacciate dal “diverso da sé”, tendono più facilmente ad essere omofobe. In particolare, il comportamento omofobo può derivare dal timore di essere categorizzati come devianti. Se la minoranza appare come deviante rispetto alle posizioni dominanti allora anche il rifiuto, o addirittura lo stigma e la violenza, possono arrivare a risultare giustificabili. Ma la patologizzazione del singolo individuo, dell’omofobo, aggressivo o folle, nasconde solo un problema sociale più ampio e complesso. Partendo dalla consapevolezza della multidimensionalità dell’omofobia approderemo certamente alla necessità di un approccio multidisciplinare a questo problema. L’omofobia è una “patologia sociale”, così come lo sono il razzismo, la xenofobia, l’antisemitismo. È necessario, quindi, che l’omofobia trovi la sua “cura” nella società, la sua “prevenzione” nell’educazione. L’educazione al rispetto e alla valorizzazione delle differenze. Non solo è possibile, ma è doveroso, sostituire alla cultura della discriminazione del diverso, la cultura dell’educazione al valore delle differenze. In altre parole, è necessario che si compia quel processo che George Weinberg, trenta anni fa, avviò in America e che risulta essere ancora drammaticamente attuale.

 

Omofobia e minority stress.

Purtroppo l’omofobia, vera e propria patologia sociale, continua ad avere una ripercussione negativa sulla vita di tante persone gay e lesbiche. La letteratura scientifica ha dimostrato in che modo il pregiudizio anti-omosessuale ha un effetto negativo sulla salute mentale di gay e lesbiche, sulla qualità delle relazioni interpersonali ed intime. Lo psicologo sociale americano Ilah Meyer, ha studiato per più di 10 anni gli effetti dello stress dovuto all’appartenenza a una minoranza sociale, discriminata per genere, etnia o orientamento sessuale. In particolare, per quanto riguarda l’orientamento sessuale, Meyer contempla tre minority stressors:

- omofobia interiorizzata: l’atteggiamento discriminatorio della persona gay o lesbica verso sé stessa;
- percezione soggettiva dello stigma: l’aspettativa di essere rifiutati o discriminati;
- situazioni oggettive di stigmatizzazione: esperienze attuali di discriminazione e violenza[13].

L’ostilità antiomosessuale nella nostra società è così diffusa che l’interiorizzazione dell’omofobia è vista da molti autori come un evento normale nel percorso evolutivo gay e lesbico. L’insieme di atteggiamenti negativi viene incorporato nell’immagine di sé e determina una frammentazione degli aspetti sessuali e affettivi che interferisce con un sano processo evolutivo. La persona gay e lesbica, a differenza di altre minoranze stigmatizzate, non trova sostegno nella famiglia e nella comunità di appartenenza. La famiglia è infatti una istituzione normalizzante[14]. Celebre è la frase di Charles Pierce: “Preferirei essere nero piuttosto che gay, perché se sei nero non devi dirlo a tua madre”. L’omofobia interiorizzata ha un impatto estremamente negativo e patogenico sugli eventi evolutivi e sul funzionamento psicologico di gay e lesbiche. L’omofobia interiorizzata, infatti, influenza negativamente la formazione dell’identità, l’autostima, la capacità e la soddisfazione relazionale. È una delle maggiori variabili patologiche nello sviluppo di alcune condizioni sintomatiche delle persone gay e lesbiche. Già Mario Mieli, nel 1977, scriveva “la nevrosi che affligge noi omosessuali manifesti dipende anche e soprattutto dalla persecuzione sociale che siamo costretti a subire perché siamo gay [...] è la psiconevrosi che si regge sulla repressione e sulla rimozione del desiderio omosessuale a causare, principalmente, la psiconevrosi di noi omosessuali manifesti. Non l’omoerotismo, dunque, ma la persecuzione dell’omoerotismo è patologica e patogena” (Mieli, 1977[15]).

 

Omofobia: il ruolo del professionista della salute mentale.

Cosa può e deve fare, lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psichiatra, il counsellor, quando una persona gay o lesbica chiede il suo aiuto?

Ad un livello di competenza professionale, chi voglia operare in questo ambito deve avere una formazione specifica, acquisire conoscenze sul processo di acquisizione dell’identità omosessuale; sul coming out; sugli effetti della stigmatizzazione e della discriminazione sul lavoro; sulla peculiarità delle dinamiche relazionali della coppia e della famiglia gay e lesbica; sulla crisi familiare che segue il coming out; sull’importanza della comunità omosessuale durante alcune fasi di sviluppo dell’identità, per citarne alcune.

Ad un livello di competenza umana, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, è importante che il professionista che voglia prendersi cura di persone gay e lesbiche abbia incluso nella sua formazione un percorso che lo renda consapevole della propria omofobia interiorizzata e del proprio omoerotismo. È importante riconoscere che “Un terapeuta che non accetta l’omosessualità del suo paziente rinforzerà quelle immagini precoci che si riflettono nell’autodenigrazione e negli atteggiamenti paranoici, masochisti o sadici e che interferiscono con la capacità del paziente di vivere esperienze e relazioni in modo più positivo”. (Isay, 1989)[16].

Ad un livello di competenza clinica, è importante lavorare in terapia, insieme alla persona di cui ci si prende cura, sulle situazioni in cui l’omofobia interiorizzata si esprime e sui diversi modi in cui questa ostacola l’accettazione positiva del proprio orientamento sessuale. Durante il percorso terapeutico è importante capire in che misura la sofferenza del paziente sia determinata dalla sua omofobia interiorizzata. Perché infine, il professionista sia efficace nel suo intervento deve saper riconoscere quando i temi dell’omosessualità non sono pertinenti nel processo terapeutico, ma appartengono, invece, alla propria omofobia interiorizzata. Si ribadisce di nuovo la necessità di una specifica formazione personale che guidi il professionista nel comprendere i propri pregiudizi e il proprio “contro-transfert”.

Ad un livello formale, infine, il presidente dell’Ordine degli Psicologi ha recentemente ribadito, in linea con l’Organizzazione Mondiale di Sanità e le maggiori organizzazioni internazionali di professionisti della salute mentale, che le terapie riparative, volte a convertire i pazienti dall’omosessualità all’eterosessualità, sono contrarie al proprio codice deontologico: “lo psicologo non può prestarsi ad alcuna “terapia riparativa” dell’orientamento sessuale di una persona”. L’Ordine Nazionale degli Psicologi già vincolava al rispetto dell’orientamento sessuale attraverso i principi del codice deontologico della professione[17].

[1] Per una trattazione sulla trans-fobia e sul pregiudizio rivolto a persone bisessuali rimando ad altri articoli.

[2] Per essere più precisi, Wainwright Churchill utilizzò il termine precursore omoerotofobia, nel suo libro “Homosexual behavior among males”, pubblicato nel 1967.

[3]  “La paura espressa dagli eterosessuali di stare in presenza di omosessuali, e l’avversione che le persone omosessuali hanno nei loro stessi confronti”.

[4] Gonsiorek, J. C. (1988). Mental health issues of gay and lesbian adolescents. Journal of Adolescent Health Care, 9, 114-122.

[5] In realtà Benkert era un letterato e non un medico, come riportato erroneamente da Ellis. Vero è che Benkert, poeta e letterato, collaborò con Gustav Jaeger alla stesura del libro “La scoperta dell’anima” del 1880, dov’è esposta la teoria secondo la quale l’attrazione sessuale ha un’origine olfattiva.. Il libro ebbe un enorme successo tra i medici dell’epoca e questo contribuì alla diffusione del suo neologismo nell’ambiente medico.

Per approfondire: www.culturagay.it/cg/biografia.php?id=34

[6] Szasz Thomas (1974), Ceremonial Chemistry, Anchor Books, New York. Citato da Drescher (2000).

[7] Drescher Jack (2000), Atteggiamenti psicoanalitici verso l’omosessualità. In Bassi Fabiano e Galli Pier Francesco (a cura di), L’omosessualità nella psicoanalisi, Einaudi, pp.67-88.

[8] Rosanna Fiocchetto (1987), L’amante celeste: la distruzione scientifica della lesbica. Estro Editrice. Ristampato da Il Dito e La Luna, 2003.

[9] Per approndire Herek, G.M. (2004). Beyond “homophobia”: Thinking about sexual stigma and prejudice in the twenty-first century. Sexuality Research and Social Policy, 1(2), 6-24. Fonte disponibile on-line all’indirizzo: http://caliber.ucpress.net/doi/abs/10.1525/srsp.2004.1.2.6

[10] Per approfondire si legga il commento dello psichiatra e psicoterapeuta Paolo Rigliano sul capitolo “Omosessualità e Omofobia” contenuto nel Lexicon. www.arcigaymilano.org/dossier/chiesa/lexicon.asp

[11] Nella Raccomandazione del 16 marzo 2000 sul rispetto dei diritti umani nell’Unione Europea, si chiede agli Stati membri di “garantire alle famiglie monoparentali, alle coppie non sposate e alle coppie dello stesso sesso parità di diritti rispetto alle coppie e alle famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali”.

[12] Per approfondire si legga Graglia Margherita (2000), L’omofobia istituzionalizzata. Psychomedia Telematic Review. http://psychomedia.it/pm/lifecycle/gender/graglia.htm

Per approfondire il tema del “Pregiudizio omofobico in psicoterapia” si legga anche Iaculo Giuseppe (2002), Le identità gay. Fabio Croce Editore, pp. 32-39.

[13] Meyer Ilan H. (1995), Minority stress and mental health in gay men. Journal of Health and Social Behavior. 36(1): 38-56. Per approfondire questo tema si consiglia inoltre, Lingiardi Vittorio (2007), Citizen gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale. Il Saggiatore.

[14] Saraceno Chiara, a cura di (2003), Diversi da chi? Gay, lesbiche, transessuali in un’area metropolitana. Guerini e Associati, p. 17.

[15] Mieli Mario (1977), Elementi di Critica Omosessuale. Einaudi, p. 34.

[16] Isay, Richard A. (1989), Trad. it. Essere omosessuali. Omosessualità maschile e sviluppo psichico. Raffaello Cortina Editore, (1996), p. 111.

[17] si faccia riferimento, in particolare, all’Art. 4 del codice deontologico della professione dello psicologo, consultabile on-line all’indirizzo: http://www.psy.it/codice_deontologico.html