Compassione, la capacità di soffrire con l'altro

La compassione fa parte dei sentimenti alla base dei comportamenti pro-sociali ma è al tempo stesso un atteggiamento di accettazione non giudicante che possiamo coltivare verso noi stessi. Ecco quali sono i suoi meccanismi

Compassione, la capacità di soffrire con l'altro

Cos’è che ci fa andare verso gli altri e che motiva comportamenti di aiuto verso la sofferenza altrui?

La compassione è uno dei sentimenti alla base dei cosiddetti comportamenti pro-sociali, si tratta della capacità di soffrire letteralmente “con” l’altro (dal latino cum patior), immedesimandosi nelle sue sofferenze con un atteggiamento di accoglienza non giudicante.

 

Compassione: riconoscere l’umanità nell’altro

La compassione non è un sentimento di pietà o di commiserazione, ma la capacità di riconoscere come propria la sofferenza altrui scevra da pregiudizi e da atteggiamenti difensivi di fuga e indifferenza.

Riconoscere che la sofferenza altrui ci riguarda significa sentire che essa fa appello alla capacità di provare un analogo stato di sofferenza in noi stessi (concetto simile all’empatia) e al tempo stesso riconoscere che quanto sta accadendo all’altro potrebbe accadere anche a noi in quanto esseri umani.

Molto spesso ci si chiede perché invece si mostri indifferenza in luogo di un atteggiamento di aiuto. Daniel Goleman lo spiega raccontando un episodio piuttosto inquietante: posto di fronte alla domanda di come avesse potuto infierire contro i membri della sua stessa famiglia, un noto killer americano avrebbe risposto di aver dovuto semplicemente “spegnere” quella parte di sé.

Vi sembra una questione solo da psicopatici? Ebbene, prosegue Goleman, è in realtà ciò che facciamo, nel nostro piccolo, ogni giorno quando distogliamo l’attenzione dal nostro interlocutore per dare retta al nostro smartphone ad esempio: di colpo l’altro è come se non esistesse.

Alla base della compassione dev’esserci, dunque, la capacità/possibilità di riconoscere l’altro in quanto essere umano; se operano invece meccanismi di oggettivazione o deumanizzazione - come avviene in molti fenomeni di violenza di gruppo e anche in noti meccanismi pubblicitari – l’atro viene ridotto ad oggetto (o merce da vendere) senza che gli vengano riconosciute qualità umane.

Vedere e cogliere l’umanità nell’altro, prima ancora che la sua sofferenza, sembra l’elemento essenziale, dunque, per poter esprimere compassione.

 

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La terapia basata sulla compassione

La compassione non riguarda solo gli altri, ma anche un atteggiamento verso sé stessi ed è in questo senso che, ad esempio, la compassione permea gran parte della dottrina buddista: “Se vuoi che gli altri siano felici, pratica la compassione. Se vuoi essere felice tu, pratica la compassione” dice il Dalai Lama.

La compassione verso sé stessi non si identifica né con l’autocommiserazione, né con un atteggiamento di lassismo o di autoindulgenza;  rappresenta piuttosto una condizione nella quale si è in grado di accettarsi per quello che si è senza colpa, vergogna o autocritica.

Sulla base di questo è stato messo a punto anche un approccio terapeutico: la Compassion Focused Therapy (CFT) sviluppata da Paul Gilbert (2005), professore di psicologia presso l’Università di Derby nel Regno Unito.

Riprendendo la Mindfulness, questo approccio mira a sviluppare nei pazienti un atteggiamento di compassione e di autoconsolazione come modo per instaurare una migliore regolazione emotiva e sicurezza in sé stessi.

Una sorta di auto-accudimento che, al posto di quello non sufficientemente buono ricevuto nell’infanzia, possa permettere alla persona di raggiungere quella condizione di sicurezza psicologica ed emozionale che non si è potuta stabilire in precedenza.

 

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